Approfondimenti
Vitamina D: tutti i benefici della vitamina del sole
È nascosta lì, sotto la nostra pelle. Stiamo parlando della vitamina D detta anche vitamina del sole proprio perché è grazie all’azione dei raggi ultravioletti che questa particolare vitamina-ormone viene “attivata”. La principale sorgente di vitamina D è costituita dall’esposizione alla luce solare. Circa l’80% della vitamina D l’organismo umano la riceve dall’esposizione al sole e Madre Natura deve aver dato così per scontata una nostra vita all’aria aperta che, l’unica vitamina non contenuta nel latte materno è proprio quella D. E’ indispensabile per il metabolismo dell’osso, ma anche per altre funzioni vitali. E se si è carenti, le ripercussioni sullo stato di salute sono molte. […]

È nascosta lì, sotto la nostra pelle. Stiamo parlando della vitamina D detta anche vitamina del sole proprio perché è grazie all’azione dei raggi ultravioletti che questa particolare vitamina-ormone viene “attivata”. La principale sorgente di vitamina D è costituita dall’esposizione alla luce solare. Circa l’80% della vitamina D l’organismo umano la riceve dall’esposizione al sole e Madre Natura deve aver dato così per scontata una nostra vita all’aria aperta che, l’unica vitamina non contenuta nel latte materno è proprio quella D. E’ indispensabile per il metabolismo dell’osso, ma anche per altre funzioni vitali. E se si è carenti, le ripercussioni sullo stato di salute sono molte.
Sui livelli di vitamina D incide la latitudine in cui si vive, la stagionalità, ma anche il colore della pelle – i fenotipi scuri ne hanno meno- l’albumina presente nel sangue e particolari condizioni metaboliche.
DAL SOLE ALLA TAVOLA
La sorgente alimentare di vitamina D è invece assai limitata: pochi cibi naturali infatti contengono vitamina D e tra l’altro in quantità limitate, tanto da provvedere appena a circa il 10% del fabbisogno. La vitamina D, liposolubile, è presente in alcuni grassi di origine animale. I pesci grassi come salmone, sgombro e aringa e il fegato sono ricchi di vitamina D. Il famoso olio di fegato di merluzzo era somministrato ai bambini in età scolare, fino a qualche tempo fa, per prevenire il rachitismo. La vitamina D è presente anche nel tuorlo d’uovo che, contrariamente all’albume, è a carattere lipidico. Infine, la troviamo ovviamente negli alimenti addizionati con vitamina D come certi tipi di latte o cereali per la prima colazione. Purtroppo – esiste un ma – il metabolismo della vitamina D è un po’ particolare. Il 70% di quella ingerita è eliminata con le feci o distrutta dal fegato. Ecco dunque che un’esposizione al sole tutte le volte che è possibile, e soprattutto durante i mesi estivi, permette di “fare la scorta” per i mesi invernali.
LIVELLI “SOGLIA” E SUPPLEMENTAZIONE
Vi sono molti pareri ma la soglia minima di concentrazione di vitamina D nel sangue dovrebbe essere di 20 ng/ml, anche se la maggior parte degli esperti consiglia tuttavia di non scendere sotto i 30 mg/ml. Stati fisiologici particolari come gravidanza e allattamento comportano una maggiore esigenza di vitamina D. Tra i neonati e gli anziani, mediamente meno esposti ai raggi solari, un deficit di vitamina D è piuttosto diffuso. Un abitudine abbastanza diffusa nei pediatri è quella di consigliare la somministrazione di gocce di vitamina D nel primo anno di vita, soprattutto per i bimbi nati nei mesi invernali. Così come molti studi rivelano come un’integrazione di vitamina D dopo i 65 anni di età sia protettiva per il rischio di fratture. Anche per le persone obese, cronicamente carenti di vitamina D, è consigliabile tenere monitorati i livelli di vitamina D con l’integrazione. Tuttavia è importante evitare di assumerla senza controllo medico. A dosi elevate la vitamina D può rivelarsi tossica perché, essendo liposolubile, tende a depositarsi nei tessuti adiposi del nostro corpo. Senza ricorrere alla supplementazione, i soggetti sani riescono generalmente a coprire il proprio fabbisogno in vitamina D con un’esposizione al sole delle braccia e delle gambe per 10-15 minuti al giorno e una dieta equilibrata che comprenda anche alimenti provvisti di vitamina D. Sempre più studi scientifici stanno dimostrando come una mancanza di questa vitamina ci esponga a un rischio maggiore di ammalarci Oltre al ruolo più conosciuto nel metabolismo dell’osso, si ritiene che i livelli bassi di vitamina D siano associati ad altre malattie quali , diabete, cancro, infezioni respiratorie, malattie autoimmuni, malattie cardiovascolari e disturbi del tono dell’umore.
INDISPENSABILE PER L’OSSO
Dati recenti indicano come, al pari di molte nazioni industrializzate, questa carenza interessi circa l’80% della popolazione italiana di età superiore ai 69 anni. Un dato tanto più preoccupante in quanto la vitamina D è indispensabile per la crescita e la solidità del nostro scheletro. Per questo motivo se una sua carenza provoca, nel bambino, rachitismo, nell’adulto è associata all’osteomalacia, ovvero a fragilità e dolori ossei.
DISTURBI DEL TONO DELL’UMORE
La carenza di vitamina D potrebbe favorire l’insorgenza della depressione. Come un vero e proprio ormone, la vitamina D agisce sul sistema endocrino attraverso recettori presenti nella maggior parte dei sistemi fisiologici, compreso il cervello. In particolare, la vitamina D interviene nella produzione dei neurotrasmettitori tra cui la serotonina, il cosiddetto “ormone del benessere”. Esiste anche un particolare tipo di disturbo, il disordine affettivo stagionale (SAD) o depressione invernale, che, come lo indica il nome, è direttamente collegato a una minore esposizione solare.
DIABETE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Recenti studi dimostrano come una carenza di vitamina D sia collegata a un maggior rischio d’infarto e d’insufficienza cardiaca (vedi la nostra intervista a Giancarlo Marenzi prof. Dell’Ospedale Cardiologico Monzino, coordinatore di uno studio su vitamina D e infarto). Non solo. Bassi livelli di vitamina D sarebbero associati anche a un’evoluzione più sfavorevole della patologia nelle persone colpite da infarto. In linea generale, la carenza di vitamina D è associata a un maggior rischio di sviluppare diabete – infatti la vitamina D è uno dei fattori in grado di controllare la secrezione insulinica- , ipertensione, ipercolesterolemia, tutti fattori di rischio cardiovascolare.
SISTEMA IMMUNITARIO
Altro importante aspetto. Si ipotizza che la vitamina D possa modulare l’attività del sistema immunitario. Una carenza di vitamina D si associa infatti a una maggiore predisposizione alle infezioni – in particolare alla tubercolosi che nel primo decennio del secolo scorso, prima dell’era degli antibiotici, veniva curata “al sole” presso i cosiddetti ospedali elioterapici – e ad alcune malattie a genesi autoimmune, come la sclerosi multipla, le malattie infiammatorie intestinali e le artriti infiammatorie.
IL LEGAME CON IL CANCRO
Recenti studi suggeriscono un legame fra carenza di vitamina D e tumori. Alcune osservazioni in vitro sulla capacità della vitamina D a inibire la proliferazione e indurre l’apoptosi (morte programmata) in alcuni tipi di cellule ha accresciuto l’interesse della comunità scientifica per il rapporto tra vitamina D, insorgenza e progressione dei tumori. Tuttavia, pare sia difficile dimostrare che esista un rapporto diretto di causa-effetto fra carenza di vitamina D e tumore, sicuramente esiste una relazione ma molti ricercatori invocano la reverse-causation ovvero ritengono che sia la malattia ad abbassare i livelli di vitamina D e non viceversa (vedi la nostra intervista alla ricercatrice dell’IEO Sara Gandini, che da anni studia la vitamina D e le sue implicazioni in ambito oncologico). In questo caso, alti livelli di questa vitamina nel sangue non sarebbero direttamente responsabili del minor rischio di tumore ma semplicemente rispecchierebbero stili di vita più sani a cui va attribuito il merito di proteggere l’individuo dal cancro.
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Come tenersi in forma durante il lock down
La chiusura delle palestre limita la possibilità di rimanere in forma. Eppure il movimento aiuta a stare meglio e a rinforzare le difese immunitarie. Vediamo come conciliare limitazioni, movimento e benessere.

La chiusura delle palestre limita la possibilità di rimanere in forma. Eppure il movimento aiuta a stare meglio e a rinforzare le difese immunitarie. Vediamo come conciliare limitazioni, movimento e benessere.
Siamo di nuovo in emergenza Covid-19 e, purtroppo, ciò finisce anche con il limitare le attività sportive e la frequentazione di piscine e palestre. Anche le passeggiate, pur consentite, subiscono limitazioni importanti poiché (almeno nelle “zone rosse”) ci si può muovere solo in prossimità della propria abitazione. E per quanto riguarda il running, per ora prevale una linea morbida e possibilista, ma ordinanze locali potrebbero anche limitare la libertà dell’esercizio, che deve comunque essere svolto in solitaria e seguendo norme di distanziamento personale. In questa situazione di difficoltà per gli amanti dello sport, abbiamo chiesto al professor Domenico Sinesi, direttore emerito del dipartimento di medicina dello Sport presso l’Ospedale Policlinico Università di Bari, di spiegarci perché è importante non trascurare l’attività fisica quotidiana e, da un punto di vista pratico, come svolgerla in questa situazione di difficoltà.
Professore, le linee guida per evitare l’infezione da coronavirus ci dicono di evitare i contatti e stare quanto possibile in isolamento. Ciò limita le attività sportive. Lei condivide questa impostazione?
La catena dei contagi ha subito un’impennata notevole sull’intero suolo nazionale e va quindi fermata in ogni modo possibile. Il distanziamento personale rispetto alle attività ludiche e sportive amatoriali diventa quindi una delle tante forme di contenimento: inutile da sola, ma organica se eseguita insieme ad altre. fatta questa premessa, è necessario far seguire a essa un ragionamento: a tutti noi è stato spiegato fin da marzo che cosa non si deve fare, sottolineando soprattutto i comportamenti da evitare. Allo stesso tempo mi permetto di aggiungere che bisognerebbe dare altrettanta importanza a che cosa è bene fare, in queste situazioni. Intendo dire che bisogna fornire suggerimenti utili a vivere al meglio i periodi di limitazione della propria autonomia. L’isolamento, pur proteggendoci dal virus, ha effetti negativi sulla nostra salute tanto fisica quanto psicologica e questi effetti finiscono con l’alterare una adeguata risposta immunitaria.
Questo vuol dire che è necessario continuare a fare attività fisica?
Certamente. Il movimento serve a sostenere il metabolismo e, così, migliora la sintesi di globuli rossi e bianchi, piastrine, neurotrasmettitori, enzimi e ogni singola molecola prodotta dal corpo. Ciò rinforza la nostra capacità di reazione ad eventuali aggressioni virali. A questo aggiungo che i macrofagi, tra le prime difese immunitarie, hanno bisogno di muoversi nel torrente sanguigno, per agire al meglio. Ebbene alzando la frequenza cardiaca, facciamo in modo che svolgano il loro compito di presidio del nostro territorio biologico in maniera più efficace.
Come si dovrebbe organizzare un’attività fisica a domicilio?
Fermo restando che chi ha attrezzi tipo tapis roulant, cyclette o ellittiche ne può usare liberamente suggerisco a chi non ne ha e non se la sente di uscire, di eseguire sedute a corpo libero non eccessivamente lunghe, ma regolari. Credo che trenta minuti complessivi di esercizio (volendo in due “tranche” da 15 minuti l’una) siano sufficienti per mantenere la tonicità muscolare e svolgere un po’ di allenamento cardiovascolare. L’ideale sarebbe ripartire ogni sessione di allenamento in tre parti uguali di tempo. Dedicando quindi un terzo di questo agli esercizi di resistenza, un terzo a quelli atti a mantenere la forza e un terzo a quelli di allungamento muscolare.
Quali sono gli esercizi più utili, in questa situazione?
Per ciò che riguarda gli esercizi di resistenza io suggerisco la corsa sul posto o il salto della corda, da affrontare a ritmo blando. A chi ritiene che quest’ultimo sia un passatempo infantile, suggerisco di verificare quali sono gli allenamenti dei pugili professionisti e di provare a fare anche solo tre minuti consecutivi di salto della corda: si ricrederà velocemente. Per ciò che riguarda la forza si può procedere con piegamenti tipo squat, per far lavorare le gambe. Alzarsi sulle punte serve a mantenere tonici i polpacci. Quindi i piegamenti sulle braccia (aiutandosi con l’appoggio delle ginocchia, se serve) sono sempre utili per tonificare la parte alta del corpo e le braccia. Il plank è un esercizio che aiuta soprattutto la muscolatura addominale. Direi che dieci piegamenti di squat, dieci sulle braccia, dieci alzate sulle punte e un minuto di plank sono sufficienti, per iniziare. Per ciò che riguarda la terza parte della seduta, lo stretching, è necessario puntualizzare alcuni aspetti fondamentali. Ricordando che lo stretching è molto importante per coloro che sono in smart working, dato che rischiano di passare molto tempo seduti davanti a un video.
Quali aspetti vuole sottolineare, per ciò che riguarda lo stretching?
Prima di tutto voglio dire che gli esercizi possono essere eseguiti liberamente più volte nella giornata e non solo durante le sessioni di allenamento, più specificamente ogni volta che si avverte rigidità muscolare. Ma soprattutto è il modo in cui si fa il movimento che va corretto rispetto alle abitudini che vedo tra le persone che fanno sport a livello amatoriale e non solo. Per esempio, quando portiamo il tallone al gluteo, tutti tirano la gamba per avvicinare il tallone al gluteo stesso. Ebbene il movimento dovrebbe essere opposto: la mano dovrebbe opporre resistenza mentre, con la gamba, cerchiamo di recuperare la posizione su due piedi; il movimento corretto è quello che tende a riportare il piede dal gluteo verso terra. Lo stretching non deve essere fatto “in trazione”, ma spingendo. La trazione favorisce elongazioni sia muscolari che tendinee ed espone ad infortuni.
Con il ritorno del lockdown è ripartita la polemica relativa all’interpretazione delle norme sull’attività fisica all’aperto. Che parere ha sulla questione?
Rispondo dicendo che è sbagliato porsi in maniera troppo assertiva sulla questione. Io penso che per rispetto delle autorità e del lavoro di medici, infermieri e altri, io dico che è giusto rispettare le indicazioni che verranno date ed eventualmente, se ci saranno limitazioni severe, riprendere l’attività all’aperto quando le condizioni saranno differenti. Attenzione però: il runner abituato a fare molti chilometri al giorno vive questa privazione in maniera drammatica a livello personale. La produzione di endorfine da parte del corpo, dopo le sedute di allenamento, è massiccia e tale da generare una dipendenza. Quindi è sbagliato, da parte degli altri, considerarlo un capriccio. È un’esigenza difficile da gestire e che somiglia molto a quella delle sigarette per il fumatore, per intenderci.
Come si può mitigare questa dipendenza?
Attraverso sostituti della corsa, se le condizioni impediranno di uscire. Si può fare corsa sul posto, meglio se sul balcone di casa, o saltare la corda. So che lo scorso marzo alcuni hanno corso dentro casa… A loro, se mai fossero costretti a ripetere questa esperienza, suggerisco di invertire il verso della corsa ogni trenta o sessanta secondi per non mandare in sofferenza l’apparato vestibolare, quello che governa il senso dell’equilibrio.
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L’attività fisica migliore? Quella che diverte!
Se è vero che il movimento è salute, quello che diverte è ancora più salutare. Per stare veramente bene è necessario allo scegliere un’attività che non ci faccia solo stancare ma ci faccia anche divertire. In modo da migliorare la chimica cerebrale.

Se è vero che il movimento è salute, quello che diverte è ancora più salutare. Per stare veramente bene è necessario scegliere un’attività che non ci faccia solo stancare, ma anche divertire. In modo da migliorare la chimica cerebrale.
Molte volte il medico sportivo è interpellato per rispondere a una domanda che all’apparenza sembra cruciale: qual è l’attività fisica migliore? Ognuno risponde a modo suo, prendendo in considerazione diverse variabili. Alcuni diranno, a ragione peraltro, che l’attività in piscina è ottima poiché non espone a traumi di tipo articolare. Altri diranno che il running è comodo, perché basta infilarsi le scarpe, una tuta e l’allenamento può iniziare. Altri ancora diranno che la camminata veloce coniuga lavoro cardiovascolare senza insistere su ginocchia zona lombare. Ogni attività, insomma, ha vantaggi e svantaggi e il medico sportivo, nel rispondere alla domanda sull’attività migliore, dovrà dare una risposta che tiene conto anche dell’età e delle condizioni del paziente, del suo terreno biologico e di eventuali patologie in atto. Una delle discriminanti che tuttavia vengono poco spesso prese in considerazione è il divertimento, l’appagamento che l’attività motoria dovrebbe dare. Partiamo allora da una considerazione di carattere generale, che dovrebbe orientare la scelta più di qualsiasi altro ragionamento: non c’è benessere autentico senza gioia.
Questa considerazione è banale solo all’apparenza. Pensiamo infatti a come funziona il corpo umano e quali sono gli attori che entrano in gioco, quando l’organismo inizia a muoversi: si avvia la macchina, il sistema cardiovascolare aumenta il proprio lavoro per consentire l’ossigenazione dei muscoli; questi, sotto sforzo, finiscono con il subire delle microscopiche lesioni che hanno bisogno di essere riparate e così, oltre ad attivare i meccanismi di infiammazione che seguono qualsiasi trauma (piccolo o grande che sia), il cervello ordina la produzione di sostanze analgesiche, le endorfine, oppioidi che vengono utilizzati per ottenere il controllo del dolore. La sensazione di rilassatezza che segue a questa cascata endorfinica, con il tempo, innesca un meccanismo di assuefazione e dipendenza. Entro certi limiti il circolo vizioso appena descritto è benefico: siamo spinti a migliorarci e così il tono muscolare, la capacità respiratoria e cardiaca migliorano. Ma oltre un certo limite alcune persone iniziano a diventare dipendenti dall’attività fisica e, in maniera paradossale, hanno un rapporto con l’esercizio che ricorda da vicino quello che si può avere con le sigarette o con i farmaci tranquillanti.
Un’attività fisica svolta, invece, con finalità ludiche ha un impatto diverso sulla nostra psiche. Se pensiamo per esempio a una partita a tennis, a una partita di calcetto tra amici, ecco che il cervello reagirà con una maggiore attivazione del sistema dopaminergico che è quello connesso alle sensazioni di appagamento, non necessariamente sportivo. La dopamina genera buonumore, ma si attiva anche in compagnia, mangiando un dolce, osservando un panorama emozionante. Dobbiamo allora pensare che la scelta dell’attività dovrebbe basarsi soprattutto sulla capacità di creare benessere. Dunque la risposta del medico sportivo alla domanda su quale sia l’esercizio migliore è: quello che ci diverte di più. Perché cuore, muscoli, polmoni si esercitano tanto su un tapis roulant quanto su un campetto di calcio a 5 e allora, a parità di condizioni di salute, dobbiamo semplicemente scegliere tra quelle attività che ci fanno sorridere, anche solo al pensiero.
Articolo realizzato con la consulenza del professor Domenico Sinesi.
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L’eccesso di sport abbassa le difese immunitarie?
Il fenomeno di chiama open-window e coinvolge soprattutto coloro che portano all’estremo sforzi di resistenza. Questo abbassamento delle difese immunitarie ci espone soprattutto all’azione dei virus respiratori.

Il fenomeno si chiama open-window e coinvolge soprattutto coloro che portano all’estremo sforzi di resistenza. Questo abbassamento delle difese immunitarie ci espone soprattutto all’azione dei virus respiratori.
Noi siamo abituati a pensare che il binomio sport e salute sia indissolubile e assoluto. Ciò è per gran parte vero, poiché il movimento può essere utile a proteggerci da numerose malattie, specialmente quelle di tipo metabolico e cardiovascolare. Tuttavia, come ben sanno i medici dello sport, i training a intensità molto elevata, così come il ripetere sessioni di allenamento stremanti in maniera ravvicinata, può risultare dannoso ed esporci al rischio di infezioni, specialmente quelle di tipo virale. Come mai ciò accade? La spiegazione va cercata nel fatto che dopo una sessione di allenamento particolarmente impegnativa i leucociti vengono “chiamati” verso i muscoli, poiché lo stress muscolare determina la rottura delle fibrille del muscolo stesso e si genera quindi uno stato di infiammazione. Molto banalmente noi possiamo renderci conto di questo fenomeno quando, dopo un periodo di inattività, facciamo uno sforzo fisico che ci lascia indolenziti per uno o più giorni a venire. Questo disagio non è causato, come molti credono erroneamente, dall’accumulo di acido lattico (che casomai è responsabile della sensazione di stanchezza muscolare, che comunque passa in fretta), ma dal danno alle fibre muscolari che spinge, poi, il corpo, alla ricostruzione delle stesse.
Comunque sia lo stato infiammatorio post attività indebolisce l’attività di presidio da parte delle difese immunitarie e si ha quindi una maggiore vulnerabilità nei confronti dei virus, specialmente quelli respiratori, considerando che sono quelli che si diffondono più facilmente nell’ambiente e sono anche quelli che, con le nostre prese di fiato sotto sforzo, rischiamo di portare all’interno dell’albero respiratorio con maggiore facilità. Questo fenomeno di calo delle difese viene chiamato dai medici sportivi con un nome particolare: “open window”. In genere dura dalle tre ore post allenamento (in caso di un’ora di corsa sostenuta) fino a 72 ore (in genere ciò accade però quando si eseguono attività molto stressanti per il corpo come maratone o triathlon), ma è sempre molto difficile indicare la “quantità” di fatica che può determinare l’apertura di questa finestra di vulnerabilità biologica, perché la capacità di recupero dipende anche dallo stato di forma individuale. Dunque il runner appassionato trarrà solo vantaggi da una mezzora di corsa di buon passo, mentre la stessa quantità di tempo corsa per la prima volta da un sedentario (ammesso che ci riesca, beninteso), può effettivamente creare una condizione di stress organico che “apre la finestra” ai patogeni. Va anche accennato un altro aspetto interessante: il calo delle difese immunitarie si verifica anche a livello delle IgA salivari, le quali aiutano a difendersi dalle infezioni del primo tratto respiratorio. Le IgA salivari, peraltro, sono a loro volta condizionate dalla composizione del microbiota delle mucose della bocca ebbene, durante lo sforzo fisico e respirando a bocca aperta, è possibile alterarne la composizione. Ecco perché possiamo scientificamente confermare una certa aneddotica per cui, dopo una maratona o una mezza maratona corsa da un amatore, possono facilmente subentrare faringiti, tosse e sindromi simil-influenzali.
Questo significa che l’attività fisica può indebolirci, anziché rafforzarci? Niente affatto: il movimento fatto in maniera regolare, non eccessivamente intenso (quindi la corsa lenta così come la camminata veloce) è utile per restare in forma, proteggere il cuore, migliorare l’efficienza polmonare, persino per stimolare la neurogenesi (secondo alcune ricerche). Ma va svolto nel rispetto delle proprie possibilità fisiche, perché l’obiettivo reale è il benessere fisico e psicologico.
Articolo realizzato con la consulenza del professor Domenico Sinesi.
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