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Sovrappeso nei bambini: quando intervenire?

Il problema del sovrappeso nei bambini rientra con lo sviluppo oppure rischia di peggiorare?
Scopriamo quali sono le conseguenze del sovrappeso nei bambini per la salute a lungo termine, i segnali d’allarme e le corrette modalità per affrontarlo efficacemente.

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Il problema del sovrappeso nei bambini rientra con lo sviluppo oppure rischia di peggiorare?

Scopriamo quali sono le conseguenze del sovrappeso nei bambini per la salute a lungo termine, i segnali d’allarme e le corrette modalità per affrontarlo efficacemente.

Il sovrappeso è un problema sempre più diffuso nella popolazione pediatrica e i dati Unicef rivelano che sono 40 milioni i bambini in eccesso ponderale già prima dei cinque anni di età. Nonostante l’allarme lanciato da medici e ricercatori, spesso il problema è sottovalutato e resta senza risposta, nella convinzione che sia senza conseguenze e in ogni caso destinato a regredire con la crescita.

Gli studi scientifici ci rivelano che, in realtà, avviene proprio il contrario:

un bambino in sovrappeso rischia di esserlo anche da adulto, soprattutto se lo squilibrio ponderale è importante.

Dal 26 al 41% dei bambini obesi in età prescolare sarà obeso da adulto, e in età scolare la percentuale sfiora addirittura il 60%, secondo i dati del Ministero della Salute.

Le possibili alterazioni dovute al sovrappeso durante l’età in cui l’organismo si sviluppa sono significative: accumulo di grasso nel fegato (steatosi), incremento dei livelli di insulina e aumento della probabilità di sviluppare diabete di tipo 2, rialzo di colesterolo, trigliceridi e acido urico, aumento della pressione arteriosa, disordini muscoloscheletrici dovuti al sovraccarico ponderale, maggior rischio di fratture.

E possono avere conseguenze a lungo termine, in età adulta: per  l’Oms, chi da bambino è stato in sovrappeso, è affetto con frequenza superiore alla media da disturbi cardiovascolari, da osteoartriti e da alcuni tipi di tumore (dell’endometrio, del colon e del seno).

Rilevanti anche le implicazioni psicologiche dell’obesità infantile: depressione, ansia, isolamento, con conseguenze sulla vita sociale e affettiva, a volte anche sulla carriera scolastica.

È bene quindi, non sottovalutare l’eccesso di peso nei bambini. Riconoscerlo, però, non è sempre facile.

Il bambino si è irrobustito in poco tempo, è crescita o sovrappeso?

L’abbiamo chiesto al dottor Francesco Iarrera, nutrizionista e responsabile del Centro di Riabilitazione Nutrizionale di Oliveri, associato all’AIDAP (Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso).

«Per capire se l’aumento di peso rientra nella norma, non utilizziamo valutazioni soggettive, che possono risentire del nostro rapporto con l’alimentazione e il cibo, ma facciamo riferimento al pediatra.

Sarà lo specialista a pesare il bambino, misurarne l’altezza e consegnare ai genitori un report con le curve di peso, uno strumento grafico che permette di capire se la crescita e l’aumento ponderale siano ottimali in rapporto all’età. Il medico valuterà se la curva si allontana dai valori medi tanto da meritare un intervento, e saprà indicare la strategia più adeguata.

Alcuni segnali di una condizione di disagio, in ogni caso, si possono cogliere semplicemente osservando e ascoltando il bambino. Attenzione, per esempio, se inizia a mangiare in maniera fortemente selettiva, orientando le scelte verso alcuni cibi “spazzatura”, come patatine, alimenti da fast food, dolciumi, merendine.

Prestiamo ascolto anche alle preoccupazioni relative al peso e alla forma del corpo (“mi sento grasso”, “ho la pancia”, “mi prendono in giro perché sono lento”, ecc.), evitando di svilirle o ridicolizzarle».

Meglio aspettare o agire subito?

« L’eccesso di peso nei bambini deve essere affrontato il prima possibile e in modo corretto.

Immaginate di avere a casa un tubo che perde, in un punto difficile da raggiungere e che voi decidiate di ignorarlo. La conseguenza sarà che il tubo perderà sempre più acqua e allagherà casa. Lo stesso può accadere con il sovrappeso di vostro figlio.

È bene agire in modo tempestivo. I bambini apprendono molto facilmente e sono degli ottimi pazienti, al contrario di quello che si crede.

È importante, però, cominciare a pensare più a una rieducazione nutrizionale che a una dieta fatta di dosaggi e restrizioni.

I dati clinici ci rivelano che, purtroppo, un bambino a cui viene somministrata una dieta ferrea difficilmente risolverà il suo problema, anzi correrà un rischio maggiore di essere un adulto obeso, oltre che di sviluppare un disturbo dell’alimentazione negli anni seguenti».

È preferibile rivolgersi al pediatra o cercare da soli un nutrizionista?

«Evitiamo il fai da te, ma andiamo dal pediatra, che potrà consigliare un cambiamento strategico delle abitudini di tutto il nucleo familiare (dieta e attività fisica) e fornire delle linee guida appropriate, ma anche inviare il bambino a uno dei centri di nutrizione pediatrica presenti sul territorio o suggerire un nutrizionista o un dietista esperto in alimentazione infantile».

Quali sono gli strumenti di intervento oggi considerati più efficaci?

«Fondamentale per tutti è l’educazione alimentare, da iniziate il prima possibile, anche prima dei sei anni di età, e che dovrebbe ovviamente interessare l’intero nucleo familiare.

In caso di difficoltà conclamate, tra gli interventi di cui è dimostrata l’efficacia spicca la terapia comportamentale basata sulla famiglia (FBT): un programma finalizzato a produrre cambiamenti nell’alimentazione e nell’attività fisica con un sistema di incentivi, che impegna tutto il nucleo familiare.

In pratica, si concorda con i bambini una sorta di gioco a premi. Per ogni cambiamento che il bambino riesce a mettere in pratica, riceve dal genitore un gettone con uno smile, che ripone in un salvadanaio. La conquista di alcuni gettoni si concretezza in un piccolo premio, correlando il comportamento alimentare sano con la ricompensa gratificante e riplasmando poco alla volta il comportamento del bambino.

Si tratta di premi piccoli, da elargire frequentemente (per esempio a cadenza settimanale), in modo tale che la motivazione sia sempre sostenuta: un paio di calzini divertenti, delle figurine (mai un premio fatto di cibo).

In questo modo si rinforzano le condotte benefiche per la salute e si facilita l’acquisizione di uno stile di vita più sano».

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0-3 anni: la bussola delle emozioni si regola adesso.

I primi scambi tra genitore e bambino hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo e impostano le modalità di interazione e di gestione delle emozioni che si manterranno in fasi di crescita successive e perfino in età adulta.

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I primi scambi tra genitore e bambino hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo e impostano le modalità di interazione e di gestione delle emozioni che si manterranno in fasi di crescita successive e perfino in età adulta.

Scopriamo quali sono le basi di una genitorialità sensibile e responsiva.

Il neonato non arriva al mondo del tutto sprovvisto di capacità. Fin dalle prime settimane di vita, manifesta “saperi” e abilità innate, che gli permettono di interagire con chi si avvicina a lui. Sono le prime fasi della relazione con l’Altro, determinanti per lo sviluppo del cervello e delle competenze cognitive, emotive e sociali. Scopriamo questo mondo misterioso fatto di micro interazioni, insieme a Rosario Montirosso, Psicologo, Psicoterapeuta, Responsabile del Centro 0-3 per il bambino a rischio evolutivo dell’IRCCS “E. Medea” di Bosisio Parini (LC).

 

Perché questa fase di vita è così cruciale?

«È un momento di elevatissima plasticità cerebrale, in cui le esperienze relazionali hanno effetti sulla funzionalità del cervello. In altre parole, a questa età il bambino è estremamente sensibile alle esperienze positive o negative che incontra e che si svolgono sempre in un contesto relazionale, all’inizio prevalentemente con la figura di accudimento principale (mamma, il papà o un altro caregiver).

Il piccolo inizia a sperimentare le proprie capacità emotive e sociali, ma anche cognitive, proprio all’interno di queste relazioni precoci. A poche settimane dalla nascita, un neonato è già in grado di porre attenzione al volto della madre, di segnalare i propri stati emozionali e, con il tempo, di regolarli in base a ciò che l’adulto gli propone. Le interazioni avvengono nella cornice di uno scambio affettuoso: la mamma parla al piccolo, questi si concentra sul suo volto e risponde con un vocalizzo, lei sorride, lui ricambia e così via.

È grazie una questa sorta di “danza”,  fatta il più delle volte di piccoli passaggi, di micro-scambi, che a poco a poco genitore e bambino diventano abili a sintonizzarsi  tra di loro. In questa reciprocità, il piccolo foggia abilità importanti e fa esperienze che porranno le basi del suo sviluppo sociale ed emotivo».

Mamma e bambino riescono sempre ad avere scambi perfettamente sintonizzati?

«La sintonizzazione è un percorso che passa da molti momenti di non-sincronia: non sempre il genitore comprende lo stato emotivo del bambino e a volte il bambino non dà segnali chiari. Questo crea incertezza nei partner: di fronte a un pianto che apparentemente non ha ragioni contingenti l’adulto non sa bene cosa fare.  Ciò che più conta per la qualità dello scambio, tuttavia, è il fatto che queste “rotture” relazionali vengano  riparate. Nei momenti in cui si recupera la sintonizzazione, la relazione tra l’adulto e il bambino dà al piccolo, ma anche al genitore, un profondo senso di autoefficacia e di sicurezza. In questo ritrovarsi, entrambi percepiscono il piacere nello stare insieme, che dà sensazioni di intesa e di armonia. Questo tipo di esperienza pone il bambino in una condizione ottimale per lo sviluppo emotivo e relazionale.
Il bambino apprende che le interruzioni, che magari lo destabilizzano o lo fanno arrabbiare, si verificano, ma è possibile ripararle. E che le situazioni si possono aggiustare, anche quando qualcosa è andato storto. Sono proprio queste sensazioni che danno un senso di fiducia in se stessi e nell’Altro».

 

Cosa accade quando, sistematicamente, si fa fatica a trovare e a ristabilire la sintonia?

«Se vi sono troppi momenti di mancata sintonizzazione, oppure se il sistema adulto-bambino non trova i modi per riparare le rotture relazionali, il bambino non riesce a  percepire il senso di protezione che emerge quando si è insieme a qualcuno di cui ci si può fidare pienamente e affronta una profonda sensazione di incertezza. In genere questo si verifica in situazioni di difficoltà, legate a un contesto problematico o allo stato emozionale dell’adulto.

Quando un papà, una mamma sono sovraccaricati emotivamente, mentalmente presi da difficoltà di tipo economico, sociale, personale, potrebbero non riuscire a “dare” spazio ai bisogni emotivi del bambino. Magari lo accudiscono nelle routine quotidiane, l’alimentazione, l’igiene, ecc., ma non riescono a trovare energie sufficienti per sintonizzarsi con lui e riparare le inevitabili rotture relazionali che si presentano.

Che ruolo hanno in questo le caratteristiche del bambino?

In alcuni casi gli ostacoli possono dipendere anche dal temperamento del bambino. Alcuni neonati e bambini sono più reattivi, possono essere ipersensibili agli stimoli, si addormentano con difficoltà, si allertano facilmente e tardano a calmarsi. Fanno più fatica a trovare lo stato di calma che facilita la relazione. Sono bambini richiedenti e indubbiamente più “faticosi”, anche per il genitore più sensibile e pieno di energie.
Detto questo, è chiaro che il contributo del genitore è decisamente più rilevante affinché la diade adulto-bambino posso superare i momenti di difficoltà e ritrovare il piacere dello stare insieme.  Per questa ragione è importante che il genitore sia consapevole del suo ruolo nello sviluppo del bambino. Se l’adulto percepisce di non avere le risorse emozionali necessarie può chiedere sostegno di un professionista preparato all’ascolto delle sue difficoltà, per un aiuto mirato e basato anche su conoscenze specifiche relative all’importanza delle prime fasi della vita nello sviluppo psicologico del bambino».

 

Cosa succede se la mamma è iper-responsiva ai segnali del bambino?

«Non dobbiamo pensare che un’elevata sintonizzazione sia la migliore modalità con cui l’adulto e il bambino possono entrare in relazione. Non tutti i momenti di rottura devono essere riparati istantaneamente, nel tentativo di creare una sorta di ipersincronia a maglie fitte, senza imperfezioni. Non mi riferisco ovviamente ai momenti in cui il bambino ha un bisogno emozionale importante, ma alle situazioni in cui il genitore interviene subito, a ogni piccolo disagio del bambino.

A prima vista potrebbe sembrare una situazione idilliaca, in realtà, è come se l’adulto trasmettesse al bambino un messaggio del tipo: “Anche nelle cose piccole, senza la mamma non potrò farcela”. In effetti il bambino ha delle sue risorse per affrontare piccoli momenti di disagio, di malessere: l’auto-contatto, il mettere in bocca le manine o focalizzare l’attenzione su un oggetto.

Un’eccessiva iper-responsività può finire per non promuovere queste capacità del bambino, cosicché, per ogni micro-evento, il riferimento necessario è sempre all’esterno, nel genitore.

Alcuni studi suggeriscono che modalità relazionali di questo tipo, osservate nei primi mesi di vita, aumentano la probabilità che il bambino sviluppi un  attaccamento ansioso».

 

E se, invece, il bambino ha a che fare con un caregiver che si sintonizza con difficoltà?

«In effetti, possiamo immaginare la sintonizzazione come un continuum che va da un estremo ad un altro. Da una parte, come abbiamo appena detto, ci sono diadi genitore-bambino in cui prevalgono modalità interattive caratterizzate da un’eccessiva responsività da parte dell’adulto e anche del bambino.

Dall’altra parte ci sono diadi in cui l’adulto è poco responsivo ai segnali emozionali del piccolo. In questo caso, il rischio è che l’adulto e il bambino seguano due binari paralleli, con poche occasioni di sintonizzarsi tra di loro. È importate considerare che l’adulto può accudire il bambino, ma sul piano dello scambio interattivo è come se i partner vivessero frequenti e prolungate rotture della comunicazione emozionale che sono riparate raramente.

Tutto questo genera un senso di “non incontro” o quanto meno di mancanza di piacere nel ritrovarsi insieme. Inoltre, il piccolo impara che non può fare affidamento più di tanto sull’adulto, perciò smette di rivolgersi in modo continuo a lui per essere consolato, magari anche quando ne avrebbe davvero bisogno, come nei momenti di separazione. Insomma è come se dovesse cercare, troppo precocemente, di arrangiarsi da solo. Anche in questo caso gli studi ci dicono che i bambini hanno maggiore probabilità di sviluppare un attaccamento evitante».

 

In cosa consiste, allora, una genitorialità sensibile e responsiva?

«Le situazioni che ho descritto sono solo una piccola percentuale e rappresentano due estremi in cui nell’interazione tra l’adulto e il bambino, anche se in modo diverso, prevale una certa rigidità di funzionamento. Fortunatamente nella stragrande maggioranza dei casi non è così.

Non è affatto facile definire in che cosa consista una genitorialità sensibile e responsiva. Penso però che non avremmo difficoltà a riconoscerla. In genere la cogliamo in modo intuitivo, guardando a come un genitore e un bambino interagiscono. Quando ci capita di vedere una giovane mamma che interagisce con il suo bambino, siamo subito ammaliati da loro stare insieme, dalla fluidità degli scambi, dal piacere che si percepisce nel loro perdersi l’uno nell’altro. Non importa dove si trovino: a casa, al mercato, per strada o addirittura in un laboratorio, come accade quando le mamme e i loro bambini partecipano alle nostre ricerche. Quello che conta è che il loro incontro appare davvero come una “danza” in cui a volte guida l’uno, a volte l’altro, a volte vanno all’unisono, a volte perdono il ritmo. Ma anche in questo caso sono pronti a ripartire.

L’intesa si rafforza proprio grazie alla possibilità di riparare i momenti di rottura, che diventano anche un’occasione di apprendimento emozionale reciproco: l’adulto impara a conoscere il bambino e questi apprende come il suo papà o la sua mamma vivano certi stati d’animo. L’adulto e il bambino possono “sbagliare”, essere confusi o semplicemente distratti, ma tra loro si sviluppa lentamente un’intesa che potrebbe suonare così: “Potrà accadere che qualche volta non ci capiremo emotivamente, ma possiamo superare insieme questi momenti”. “Possiamo perderci, ma sappiamo che possiamo ritrovarci”. Questa è un’interazione precoce è dinamica e costruttiva.

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E poi, i bambini. Impatto del periodo di isolamento sullo sviluppo psicologico.

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Intervista a Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo all’Università “Sapienza”, Università di Roma.

La rinuncia da parte di bambini e ragazzi a esperienze fondamentali per la crescita, come la scuola e le relazioni con i coetanei a causa della pandemia potrebbe avere un impatto negativo sul benessere futuro di questa generazione. La prestigiosa rivista medica The Lancet ha pubblicato diversi studi sugli effetti delle restrizioni prolungate sullo sviluppo di bambini e ragazzi, rilevando un aumento dei sintomi psicopatologici e post traumatici.

Ammaniti-cover-350x551Ne abbiamo parlato col professor Massimo Ammaniti, psicoanalista, professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, autore del saggio  “E poi, i bambini: i nostri figli al tempo del Coronavirus”, (Solferino, 2020) e coautore, con Luca Cerniglia e Silvia Cimino di uno studio sull’impatto del periodo di isolamento sullo sviluppo psicologico infantile.

Professor Ammaniti, cosa stanno perdendo bambini e ragazzi di cruciale per la loro crescita?

Bambini e adolescenti sono stati privati della possibilità di svolgere molte delle attività che prima caratterizzavano la loro esistenza e ne segnavano le tappe di crescita: le lezioni scuola, gli incontri con i coetanei e con i parenti, lo sport. Queste abitudini familiari, i rituali ripetitivi della quotidianità, costituiscono una trama essenziale nelle vite dei più giovani, sono importanti nella costruzione della loro identità, aiutano ad affrontare i momenti di passaggio e i rapporti con gli altri. Gli stimoli sociali e i momenti di confronto con il gruppo, inoltre, sono basilari per lo sviluppo, non solo a livello psicologico, ma anche a livello cerebrale, perché il cervello in crescita è un cervello ipersociale, che ha costante bisogno di interazioni per maturare.

A causa delle restrizioni, oltretutto, è stata inibita anche la vivacità motoria di bambini e ragazzi, non più canalizzata verso l’esterno attraverso i mille impegni che caratterizzavano le giornate prima della pandemia.

Da queste mancanze deriva una serie di problematiche legate all’ansia, disturbi del comportamento (irritabilità, intolleranza alle regole, capricci, richieste insistenti), difficoltà del sonno (problemi di addormentamento, risvegli notturni). Potremmo definirla una vera e propria sindrome da deprivazione sociale, che, nel periodo della pandemia, ha determinato una crescita di sintomi quali irrequietezza, difficoltà di concentrazione, tristezza, ritiro, sintomi somatici, svogliatezza e selettività ai pasti, con aumento dei livelli di disregolazione emotiva e comportamentale e dei problemi del sonno.

Quali sono le difficoltà maggiori per i bambini in età prescolare?

 Le difficoltà maggiori sono legate al fatto che i ritmi quotidiani sono cambiati repentinamente. Il mondo esterno, finora naturale estensione della vita, assume tinte cupe e preoccupanti, è diventato improvvisamente un ambiente pericoloso e a rischio di contagio, in cui non ci si può muovere liberamente. Allo stesso tempo anche il clima emotivo che si respira all’interno di casa, in famiglia, è spesso carico di tensioni e di preoccupazioni, che, anche se dissimulate, spesso vengono avvertite anche dai più piccoli e possono intaccare il loro senso di sicurezza, fondamentale soprattutto nei primi anni di vita.

Già a pochi mesi, i bambini si confrontano con la paura di perdere i genitori, che garantiscono loro la sicurezza, e questa angoscia può riemergere anche in momenti successivi dello sviluppo, diventando centrale per esempio nei disturbi del sonno. L’addormentamento è un momento particolarmente critico, su cui si trasferiscono e si focalizzano tensioni e ansie accumulate durante il giorno, attraverso un meccanismo di travaso emotivo. L’avvicinarsi della notte, in altre parole, precipita i piccoli in una dimensione inquietante, in cui non vedendo più mamma e papà temono che possa loro succeder loro qualcosa.

Anche i bambini più grandi sembrano avere più bisogno dei genitori, in questa fase.

Quel che si creato è uno strano paradosso: la maggiore presenza dei genitori accresce nei bambini, che prima della pandemia erano abituati a essere più autonomi andando al nido o a scuola, il bisogno di mamma e papà e attiva comportamenti di dipendenza tipici del passato. Questo costante bisogno di vicinanza si è scontrato con gli impegni dei genitori, che spesso hanno manifestato insofferenza di fronte alle insistenze e ai pianti dei figli.

Alcuni bambini hanno reagito con capricci e crisi di rabbia, altri con comportamenti più allarmanti (per esempio ricominciando a fare la pipì a letto durante la notte) e con la perdita di altre acquisizioni che sembravano ormai consolidate. Si tratta di segnali regressivi da non sottovalutare, che rivela una situazione di stress e tensione.

Qual è l’atteggiamento raccomandato per far fronte allo stress dei più piccoli?

Il mio consiglio è quello di evitare di forzarli e di provare a raggiungere un compromesso, evitando punizioni o ricatti. È importante che, di fronte alle ostinazioni, mamma e papà trovino il modo di mediare, per esempio promettendo che la sera rimarranno accanto al figlio finché non si addormenta, ma l’indomani, dopo avergli letto una favola, lo lasceranno solo con la luce accesa, perché anche loro devono riposarsi. E infine, evitare di affidare troppo agli schermi e ai video la soluzione dei problemi.

Anche nei momenti segnati da difficoltà esterne, per esempio una pandemia, il supporto emotivo dei genitori è un importante fattore protettivo contro l’insorgere di sintomi psicopatologici, come suggerisce l’indagine “Post-traumatic Stress in Parents and Youth”, pubblicata nel 2013 e relativa al contagio della SARS negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda gli adolescenti? Nel libro sottolinea come siano privati di esperienze basilari per la loro crescita.

Ragazzi e ragazze stanno sperimentando un intenso senso di perdita.

Gli adolescenti hanno la necessità di esplorare, di mettersi alla prova, di esporsi a situazioni rischiose e di fare le prime esperienze sentimentali e sessuali; hanno ancora bisogno della disponibilità dei genitori ma devono iniziare un percorso di autonomia e di sperimentazione in cui il gruppo dei coetanei è fondamentale.

Per loro lo stallo obbligato in famiglia è particolarmente difficile, perché li riconduce al passato, da cui invece vogliono staccarsi. Ecco perché, a differenza del bambino, a casa l’adolescente tende a isolarsi ancora più di quanto avveniva prima. Questo ritiro è un modo per riprendere in mano la propria vita, allontanandosi dai familiari e dai riti quotidiani nei quali madre, padre e fratelli si ritrovano.

Si potrà recuperare ciò che è mancato a questa generazione di bambini e di ragazzi?

Per fortuna il cervello dei bambini e degli adolescenti ha una grande plasticità e sarà in grado di recuperare. Nella maggior parte dei casi si potranno quindi attivare dei meccanismi auto-correttivi, anche se, a mio parere, probabilmente, il 20-30% di loro continuerà a manifestare difficoltà sul piano, per esempio, della regolazione emotiva, con disturbi del sonno e sintomi ansiosi.

Le famiglie e la scuola dovranno essere consapevoli che, il giorno in cui riprenderà la vita normale, non tutto sarà subito risolto. Bisognerà continuare ad avere una particolare attenzione e cura per questa generazione e sostenerla nelle sue difficoltà.

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Mio figlio non mangia niente! Quando il cibo fa paura

Può essere solo una fase oppure il preludio di un disturbo alimentare. Ecco quando allertarsi e rivolgersi al pediatra, se un bambino ha uno scarso interesse per il cibo o fatica a introdurre alimenti nuovi nella dieta.

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Perché mio figlio non mangia niente?

Può essere solo una fase oppure il preludio di un disturbo alimentare. Ecco quando allertarsi e rivolgersi al pediatra, se un bambino ha uno scarso interesse per il cibo o fatica a introdurre alimenti nuovi nella dieta.

Ci sono bambini proverbialmente schizzinosi, che accettano soltanto pochi alimenti già noti e sono pronti a digiunare piuttosto che introdurre qualcosa di diverso; spesso si saziano in fretta e sono sospettosi nei confronti del cibo.

Come capire se è una tappa di crescita, magari legata a situazioni familiari o scolastiche, che si risolverà da sé, oppure un vero e proprio disturbo alimentare?

E quando è il caso di consultare il pediatra?

Scopriamolo con la psicoterapeuta Pamela Pace, psicoanalista e presidente Associazione Pollicino e Centro Crisi Genitori Onlus.

La dottoressa Pace si occupa dei disordini del comportamento alimentare nell’infanzia ed è autrice con Aurora Mastroleo, di “Mangio o non mangio? I disordini alimentari e i bambini” (edito da Mondadori).

 

Le difficoltà alimentari a volte fanno parte dello sviluppo normale?

«Non sempre l’inappetenza è patologica: vi sono bambini a cui piace il cibo e bambini tendenzialmente disinteressati al momento dei pasti.

Una certa diffidenza nei confronti degli alimenti nuovi, quando è contenuta e limitata nel tempo, fa parte del processo di crescita. Per esempio potrebbe manifestarsi con lo svezzamento, quando il bambino perde il piacere della suzione e del rassicurante corpo a corpo con la mamma. Il piccolo può essere invaso da una serie di emozioni sgradevoli, come rabbia, paura e dispiacere, proprio mentre incontra gli alimenti solidi, che provocano in lui un rifiuto e a volte può volerci qualche tempo per accettare questa nuova era del rapporto con il cibo.

Più avanti nella crescita, alcuni cambiamenti significativi possono avere ripercussioni sulla sfera del cibo: l’entrata al nido, alla materna o alle elementari, la nascita di un fratellino o di una sorellina, un lutto in famiglia o la separazione dei genitori. La problematica a tavola, allora, rispecchia la fatica del piccolo in quel particolare momento, ed è importante che sia affrontata con sensibilità e consapevolezza rispetto ai vissuti emotivi che essa cela».

Qual è la relazione tra cibo, emozioni e affettività?

«L’atto nutritivo non veicola solo sostanze che vanno a riempire il pancino, ma anche messaggi che riguardano la dimensione relazionale e affettiva, sono cibo per il cuore e costituiscono una prima forma di comunicazione e di relazione: si mangia sempre alla tavola dell’altro.

Lo osserviamo in modo evidente nel neonato, dipendente in tutto dalla persona che lo accudisce, che, insieme agli alimenti, gli offre dedizione e amore: quando, dopo l’allattamento rimane attaccato alla tettarella o al seno, il piccolo non sta più esprimendo il bisogno di essere nutrito, ma innalza una richiesta d’amore:  “Fammi stare ancora qui, tienimi vicino, perché ho bisogno di sapere che posto ho nel tuo cuore e nel tuo desiderio”.

Ogni essere umano si “nutre” innanzitutto della risposta alle domande: “Chi sono io per te, che posto occupo nel tuo desiderio, ti manco, mi puoi perdere?”.

L’angoscia della prima infanzia è l’angoscia dell’abbandono, di non essere dentro il pensiero e l’attenzione di mamma e papà. L’accettazione del cibo rimanda proprio all’accettazione di un legame affettivo e rispecchia la fiducia e la sicurezza del bambino rispetto a quel legame».

Un comportamento alimentare anomalo può contenere un messaggio rivolto agli adulti significativi?

«Nel rapporto del bambino con l’atto alimentare è sempre implicato il mondo inconscio degli affetti e delle emozioni, dunque la relazione con l’altro, inizialmente la mamma, il papà, i nonni, poi i compagni, le educatrici e le insegnanti che prendono parte alla mensa. Per questi motivi, quando il bambino incontra qualche difficoltà nel suo percorso o nell’ambiente di crescita, l’ambito alimentare, più di altri, può snaturarsi e diventare un territorio di opposizione e di protesta.

Attraverso il rifiuto del cibo, ma anche per esempio attraverso il suo divoramento eccessivo, il bambino veicola un messaggio che è bene i genitori (e gli educatori) imparino a cogliere e a tradurre correttamente, chiedendosi: “Cosa mi sta dicendo? Quali emozioni e vissuti sta comunicando?”.

L’importante è che il genitore inizi a interrogarsi sulla richiesta insita nel comportamento del bambino, invece di irritarsi, insistere e instaurare con il piccolo un braccio di ferro che inevitabilmente creerà delle resistenze in lui».

Cosa fare a tavola, se il bambino si rifiuta di mangiare?

«Può essere utile, per esempio, arricchire il momento del pasto di colori, musica e fantasia, per aumentare la quantità di stimoli oppure far partecipare i piccoli alla preparazione, per accrescere il coinvolgimento nei bambini poco interessati al cibo.

Le modalità minacciose sono controproducenti (“Mangia tutto, se no arriva il vigile e ti porta via”), così come quelle affettive (“Mangia tutto, perché se no fai piangere la mamma” oppure “Guarda tuo fratello come è bravo”). Entrambe confondono il bambino, mentre il metodo ricattatorio (“Se non mangi non ti compro il gioco”) gli fa presto capire che, accettando o rifiutando il cibo, anche lui può esercitare un potere, che non esiterà a usare (“Se tu non mi compri il gioco, io chiudo la bocca”)».

C’è anche una componente transgenerazionale, nell’atteggiamento verso il cibo e i pasti?

«Certamente. Il comportamento alimentare umano viene in gran parte appreso. Il bambino impara a rapportarsi con la sfera alimentare attraverso l’esempio che gli adulti di riferimento gli mostrano quotidianamente, in modo esplicito o meno, attraverso azioni e discorsi.

Se il genitore stesso tende a soddisfare le proprie esigenze emotive attraverso il cibo, sarà più difficile per lui imparare a distinguere i diversi bisogni del bambino e a dar loro risposte appropriate. Per questo, acquisire una maggiore consapevolezza rispetto all’atto nutritivo è davvero fondamentale».

Quando bisogna preoccuparsi?

«Se l’atteggiamento selettivo ed evitante perdura negli anni, peggiora e/o comporta l’introduzione di una quantità di cibo inadeguata e carente sotto il profilo dei nutrienti, anche lo sviluppo potrebbe esserne influenzato. Allora è necessario consultarsi con il medico curante».

Ma, anche prima di arrivare a questa condizione, può essere utile chiedere aiuto o supporto, senza paura di sentirsi criticati o giudicati: non esistono genitori perfetti, ognuno fa o dovrebbe fare il suo meglio e, soprattutto, è colui che più di ogni altro conosce il proprio bambino.

 

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