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Preeclampsia, un fattore di rischio per la depressione post parto

Non solo è tra le prime cause di parto indotto, di nascita pretermine e di mortalità e morbilità materno-infantile: la pre-eclampsia può avere insidiose conseguenze a lungo termine, sia sul piano fisico che su quello mentale, che solo da poco stiamo iniziando a comprendere.

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Preeclampsia: perché è pericolosa anche per la mente.

Il benessere psicologico della donna durante e dopo la gravidanza viene messo a dura prova dalla preeclampsia, che rischia di sfociare anche in depressione post parto.

Non solo è tra le prime cause di parto indotto, di nascita pretermine e di mortalità e morbilità materno-infantile: la preeclampsia può avere insidiose conseguenze a lungo termine, sia sul piano fisico che su quello mentale, che solo da poco stiamo iniziando a comprendere.

Si tratta di un disordine ipertensivo che insorge dopo la 20 ° settimana di gestazione, coinvolge più di un sistema di organi del corpo ed è rivelato da valori pressori elevati, presenza di proteine nelle urine ed edema. Le prime avvisaglie, spesso non adeguatamente riconosciute dalle donne, sono forti mal di testa, problemi alla vista (lampi e luci, da cui il nome “eclampsia”), ritenzione dei liquidi, nausea e aumento di peso.

Secondo il National Institute for Health and Care Excellence (NICE UK), la pre-eclampsia (che può sfociare in eclampsia, HELLP syndrome nelle forme più severe) colpisce circa 5-8 gravidanze su 100, ma la sua incidenza sta aumentando, insieme al diffondersi dei fattori di rischio tipici della nostra società: età avanzata alla prima gravidanza, obesità, problematiche vascolari, gravidanze multiple.

Giada Bossi e il professor Herbert Valensise spiegano come riconoscere la preeclampsia, quali sono i suoi  primissimi sintomi e quali sono i rischi di questo disturbo in questo articolo.

Un’esperienza traumatica, che può originare quadri depressivi.

Anche se, nel mondo occidentale, solo raramente questa patologia sfocia nella morte della madre e nella perdita del feto, la sua diagnosi si impone spesso come un trauma.

La pre-eclampsia si manifesta improvvisamente, in genere in una donna senza precedenti problematiche, che si aspettava una gravidanza normale, mettendone a repentaglio la salute, la possibilità di portare avanti la gestazione con successo e, a volte, la sopravvivenza stessa.

Nei casi più gravi, la madre è costretta ad affrontare periodi di degenza in ospedale, con relative conseguenze sul piano psicologico.

Può andare incontro a complicanze ostetriche drammatiche, riduzione della crescita fetale, morte endouterina, parto pretermine e ricovero del neonato in terapia intensiva neonatale, ospedalizzazione dopo il parto.

Queste esperienze, spesso segnate da vissuti di grande incertezza, sofferenza, senso di perdita di controllo, sradicamento della propria identità, paura e dolore fisico, possono scatenare una sintomatologia post-traumatica, stati di intenso stress, flashback e pensieri disturbanti, incubi e comportamenti di evitamento (per esempio delle visite mediche) dannosi e invalidanti.

Come rivela la review e meta analisi pubblicata nel 2019 su Archives of Women Mental Health, un buon numero di studi e ricerche qualitative conferma l’associazione tra pre-eclampsia aumentata incidenza di disordini psichiatrici di tipo post-traumatico e, soprattutto, depressivo, che talvolta si estendono ben oltre il periodo perinatale, anche nelle donne che in precedenza non avevano mai sofferto di disturbi mentali.

Ricordiamo che la depressione post parto coinvolge circa il 13% delle neomamme (World Health Organization) e impatta negativamente sulle prime relazioni tra mamma e bambino, con possibili problematicità nello sviluppo.

Sono stati valutati anche i possibili fattori neurobiologici alla base dell’aumentato rischio di depressione dopo la preeclampsia: e la componente infiammatoria, comune a entrambe le patologie, sembra avere un ruolo determinante.

E infine, nel puerperio la madre spesso lamenta sintomi debilitanti, quali stanchezza, mal di testa, problemi del sonno e della concentrazione, che possono contribuire alla comparsa di un quadro depressivo.
I sintomi psicologici derivanti da una gravidanza ad alto rischio, soprattutto se non compresi e trascurati, possono persistere per anni determinando alterazioni dell’umore, ma anche difficoltà nella relazione mamma bambino e nella reintegrazione nel mondo del lavoro.

Un nuovissimo studio: conseguenze a lungo termine sulla salute del cuore

Oggi si sa che anche il corpo fatica a riprendersi dalla pre-eclampsia, e non sempre vi riesce del tutto. In particolare sulla salute del cuore, questa patologia può avere conseguenze a lungo termine, come rivela una review ad ampio raggio appena uscita sul British Medical Journal, sul rapporto tra fattori riproduttivi e rischio di insufficienza cardiaca femminile (una condizione ancora sottostimata e poco conosciuta nelle sue specificità).

Il vissuto psicocorporeo della preeclampsia è problematico e delicato, sia per la madre che per il bambino, ecco perché diventa fondamentale creare un maggiore spazio di consapevolezza su questa malattia, nei sanitari, negli operatori e nelle famiglie. Grazie a un’educazione perinatale completa e non omissiva, seguendo le madri da vicino e attentamente nei primi mesi dopo il parto, per migliorare gli esiti clinici e la qualità di vita della mamma, del neonato e dell’intero nucleo familiare.

Sul piano psicoterapico, ha mostrato effetti positivi la terapia breve basata sull’accettazione, la ACT (Acceptance and Commitment Therapy) uno strumento adeguato anche al setting ospedaliero, che aiuta ad “Aumentare la flessibilità psicologica e la capacità di accettare pensieri e sentimenti sgradevoli derivanti da situazioni di grande incertezza, mancanza di controllo e avversità”.

Accogliere l’ambivalenza è fondamentale in questa fase della vita, in particolare dopo una gravidanza a rischio.

A volte la nascita di un figlio ha per la salute della donna conseguenze irreversibili e lascia nel profondo del suo corpo, come della sua psiche, delle cicatrici così profonde che alcune, pur amando profondamente i loro bambini, non ripeterebbero l’esperienza.

È difficile, tuttavia, parlare apertamente dei costi biologici e psicologici che la gravidanza può avere per le madri, cui dolore spesso resta inespresso, inesprimibile, non accolto. E rischia, purtroppo, di infettare il terreno psichico tutto attorno.

Emozioni umbratili, ancora troppo spesso occultate da una narrativa sacralizzante della maternità, che la racconta come momento idilliaco e privo di chiaroscuri, dove una femminilità sana incontrerebbe, senza intoppi, il naturale compimento e la felicità. E se c’è bisogno di asciugare le lacrime, spunta la retorica dell’abnegazione e del “sacrificio fatto volentieri”, che, se può contribuire a dare senso ad alcuni vissuti dolorosi, soffoca però altre emozioni, meno socialmente accettate e dunque più difficili da riconoscere e tollerare in sé.

L’irritazione, la frustrazione, la rabbia, il rimpianto e il risentimento di una madre restano  ancora oggi indicibili, impossibili, immorali.

Non si lascia loro spazio per manifestarsi ed essere elaborati, quasi nemmeno per essere pensati, proprio laddove, al contrario, poterlo fare  sarebbe vitale per la salute psichica dell’intero nucleo familiare.

Eppure essi possono esistere nell’esperienza di una madre, più spesso mischiati a gioia, soddisfazione e amore, perché l’ambivalenza fa parte della maternità, come di tutte le esperienze umane.

Ancora oggi, restano un doloroso “non detto”, come leggiamo nel libro della studiosa israeliana Orna Donath, “Pentirsi di essere madri. Storie di donne che tornerebbero indietro”, un paper che ha sfidato un tabù ed è diventato un best seller illuminante (Bollati Boringhieri, Torino, 2017) che tutte dovremmo sfogliare.

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0-3 anni: la bussola delle emozioni si regola adesso.

I primi scambi tra genitore e bambino hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo e impostano le modalità di interazione e di gestione delle emozioni che si manterranno in fasi di crescita successive e perfino in età adulta.

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I primi scambi tra genitore e bambino hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo e impostano le modalità di interazione e di gestione delle emozioni che si manterranno in fasi di crescita successive e perfino in età adulta.

Scopriamo quali sono le basi di una genitorialità sensibile e responsiva.

Il neonato non arriva al mondo del tutto sprovvisto di capacità. Fin dalle prime settimane di vita, manifesta “saperi” e abilità innate, che gli permettono di interagire con chi si avvicina a lui. Sono le prime fasi della relazione con l’Altro, determinanti per lo sviluppo del cervello e delle competenze cognitive, emotive e sociali. Scopriamo questo mondo misterioso fatto di micro interazioni, insieme a Rosario Montirosso, Psicologo, Psicoterapeuta, Responsabile del Centro 0-3 per il bambino a rischio evolutivo dell’IRCCS “E. Medea” di Bosisio Parini (LC).

 

Perché questa fase di vita è così cruciale?

«È un momento di elevatissima plasticità cerebrale, in cui le esperienze relazionali hanno effetti sulla funzionalità del cervello. In altre parole, a questa età il bambino è estremamente sensibile alle esperienze positive o negative che incontra e che si svolgono sempre in un contesto relazionale, all’inizio prevalentemente con la figura di accudimento principale (mamma, il papà o un altro caregiver).

Il piccolo inizia a sperimentare le proprie capacità emotive e sociali, ma anche cognitive, proprio all’interno di queste relazioni precoci. A poche settimane dalla nascita, un neonato è già in grado di porre attenzione al volto della madre, di segnalare i propri stati emozionali e, con il tempo, di regolarli in base a ciò che l’adulto gli propone. Le interazioni avvengono nella cornice di uno scambio affettuoso: la mamma parla al piccolo, questi si concentra sul suo volto e risponde con un vocalizzo, lei sorride, lui ricambia e così via.

È grazie una questa sorta di “danza”,  fatta il più delle volte di piccoli passaggi, di micro-scambi, che a poco a poco genitore e bambino diventano abili a sintonizzarsi  tra di loro. In questa reciprocità, il piccolo foggia abilità importanti e fa esperienze che porranno le basi del suo sviluppo sociale ed emotivo».

Mamma e bambino riescono sempre ad avere scambi perfettamente sintonizzati?

«La sintonizzazione è un percorso che passa da molti momenti di non-sincronia: non sempre il genitore comprende lo stato emotivo del bambino e a volte il bambino non dà segnali chiari. Questo crea incertezza nei partner: di fronte a un pianto che apparentemente non ha ragioni contingenti l’adulto non sa bene cosa fare.  Ciò che più conta per la qualità dello scambio, tuttavia, è il fatto che queste “rotture” relazionali vengano  riparate. Nei momenti in cui si recupera la sintonizzazione, la relazione tra l’adulto e il bambino dà al piccolo, ma anche al genitore, un profondo senso di autoefficacia e di sicurezza. In questo ritrovarsi, entrambi percepiscono il piacere nello stare insieme, che dà sensazioni di intesa e di armonia. Questo tipo di esperienza pone il bambino in una condizione ottimale per lo sviluppo emotivo e relazionale.
Il bambino apprende che le interruzioni, che magari lo destabilizzano o lo fanno arrabbiare, si verificano, ma è possibile ripararle. E che le situazioni si possono aggiustare, anche quando qualcosa è andato storto. Sono proprio queste sensazioni che danno un senso di fiducia in se stessi e nell’Altro».

 

Cosa accade quando, sistematicamente, si fa fatica a trovare e a ristabilire la sintonia?

«Se vi sono troppi momenti di mancata sintonizzazione, oppure se il sistema adulto-bambino non trova i modi per riparare le rotture relazionali, il bambino non riesce a  percepire il senso di protezione che emerge quando si è insieme a qualcuno di cui ci si può fidare pienamente e affronta una profonda sensazione di incertezza. In genere questo si verifica in situazioni di difficoltà, legate a un contesto problematico o allo stato emozionale dell’adulto.

Quando un papà, una mamma sono sovraccaricati emotivamente, mentalmente presi da difficoltà di tipo economico, sociale, personale, potrebbero non riuscire a “dare” spazio ai bisogni emotivi del bambino. Magari lo accudiscono nelle routine quotidiane, l’alimentazione, l’igiene, ecc., ma non riescono a trovare energie sufficienti per sintonizzarsi con lui e riparare le inevitabili rotture relazionali che si presentano.

Che ruolo hanno in questo le caratteristiche del bambino?

In alcuni casi gli ostacoli possono dipendere anche dal temperamento del bambino. Alcuni neonati e bambini sono più reattivi, possono essere ipersensibili agli stimoli, si addormentano con difficoltà, si allertano facilmente e tardano a calmarsi. Fanno più fatica a trovare lo stato di calma che facilita la relazione. Sono bambini richiedenti e indubbiamente più “faticosi”, anche per il genitore più sensibile e pieno di energie.
Detto questo, è chiaro che il contributo del genitore è decisamente più rilevante affinché la diade adulto-bambino posso superare i momenti di difficoltà e ritrovare il piacere dello stare insieme.  Per questa ragione è importante che il genitore sia consapevole del suo ruolo nello sviluppo del bambino. Se l’adulto percepisce di non avere le risorse emozionali necessarie può chiedere sostegno di un professionista preparato all’ascolto delle sue difficoltà, per un aiuto mirato e basato anche su conoscenze specifiche relative all’importanza delle prime fasi della vita nello sviluppo psicologico del bambino».

 

Cosa succede se la mamma è iper-responsiva ai segnali del bambino?

«Non dobbiamo pensare che un’elevata sintonizzazione sia la migliore modalità con cui l’adulto e il bambino possono entrare in relazione. Non tutti i momenti di rottura devono essere riparati istantaneamente, nel tentativo di creare una sorta di ipersincronia a maglie fitte, senza imperfezioni. Non mi riferisco ovviamente ai momenti in cui il bambino ha un bisogno emozionale importante, ma alle situazioni in cui il genitore interviene subito, a ogni piccolo disagio del bambino.

A prima vista potrebbe sembrare una situazione idilliaca, in realtà, è come se l’adulto trasmettesse al bambino un messaggio del tipo: “Anche nelle cose piccole, senza la mamma non potrò farcela”. In effetti il bambino ha delle sue risorse per affrontare piccoli momenti di disagio, di malessere: l’auto-contatto, il mettere in bocca le manine o focalizzare l’attenzione su un oggetto.

Un’eccessiva iper-responsività può finire per non promuovere queste capacità del bambino, cosicché, per ogni micro-evento, il riferimento necessario è sempre all’esterno, nel genitore.

Alcuni studi suggeriscono che modalità relazionali di questo tipo, osservate nei primi mesi di vita, aumentano la probabilità che il bambino sviluppi un  attaccamento ansioso».

 

E se, invece, il bambino ha a che fare con un caregiver che si sintonizza con difficoltà?

«In effetti, possiamo immaginare la sintonizzazione come un continuum che va da un estremo ad un altro. Da una parte, come abbiamo appena detto, ci sono diadi genitore-bambino in cui prevalgono modalità interattive caratterizzate da un’eccessiva responsività da parte dell’adulto e anche del bambino.

Dall’altra parte ci sono diadi in cui l’adulto è poco responsivo ai segnali emozionali del piccolo. In questo caso, il rischio è che l’adulto e il bambino seguano due binari paralleli, con poche occasioni di sintonizzarsi tra di loro. È importate considerare che l’adulto può accudire il bambino, ma sul piano dello scambio interattivo è come se i partner vivessero frequenti e prolungate rotture della comunicazione emozionale che sono riparate raramente.

Tutto questo genera un senso di “non incontro” o quanto meno di mancanza di piacere nel ritrovarsi insieme. Inoltre, il piccolo impara che non può fare affidamento più di tanto sull’adulto, perciò smette di rivolgersi in modo continuo a lui per essere consolato, magari anche quando ne avrebbe davvero bisogno, come nei momenti di separazione. Insomma è come se dovesse cercare, troppo precocemente, di arrangiarsi da solo. Anche in questo caso gli studi ci dicono che i bambini hanno maggiore probabilità di sviluppare un attaccamento evitante».

 

In cosa consiste, allora, una genitorialità sensibile e responsiva?

«Le situazioni che ho descritto sono solo una piccola percentuale e rappresentano due estremi in cui nell’interazione tra l’adulto e il bambino, anche se in modo diverso, prevale una certa rigidità di funzionamento. Fortunatamente nella stragrande maggioranza dei casi non è così.

Non è affatto facile definire in che cosa consista una genitorialità sensibile e responsiva. Penso però che non avremmo difficoltà a riconoscerla. In genere la cogliamo in modo intuitivo, guardando a come un genitore e un bambino interagiscono. Quando ci capita di vedere una giovane mamma che interagisce con il suo bambino, siamo subito ammaliati da loro stare insieme, dalla fluidità degli scambi, dal piacere che si percepisce nel loro perdersi l’uno nell’altro. Non importa dove si trovino: a casa, al mercato, per strada o addirittura in un laboratorio, come accade quando le mamme e i loro bambini partecipano alle nostre ricerche. Quello che conta è che il loro incontro appare davvero come una “danza” in cui a volte guida l’uno, a volte l’altro, a volte vanno all’unisono, a volte perdono il ritmo. Ma anche in questo caso sono pronti a ripartire.

L’intesa si rafforza proprio grazie alla possibilità di riparare i momenti di rottura, che diventano anche un’occasione di apprendimento emozionale reciproco: l’adulto impara a conoscere il bambino e questi apprende come il suo papà o la sua mamma vivano certi stati d’animo. L’adulto e il bambino possono “sbagliare”, essere confusi o semplicemente distratti, ma tra loro si sviluppa lentamente un’intesa che potrebbe suonare così: “Potrà accadere che qualche volta non ci capiremo emotivamente, ma possiamo superare insieme questi momenti”. “Possiamo perderci, ma sappiamo che possiamo ritrovarci”. Questa è un’interazione precoce è dinamica e costruttiva.

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E poi, i bambini. Impatto del periodo di isolamento sullo sviluppo psicologico.

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Intervista a Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo all’Università “Sapienza”, Università di Roma.

La rinuncia da parte di bambini e ragazzi a esperienze fondamentali per la crescita, come la scuola e le relazioni con i coetanei a causa della pandemia potrebbe avere un impatto negativo sul benessere futuro di questa generazione. La prestigiosa rivista medica The Lancet ha pubblicato diversi studi sugli effetti delle restrizioni prolungate sullo sviluppo di bambini e ragazzi, rilevando un aumento dei sintomi psicopatologici e post traumatici.

Ammaniti-cover-350x551Ne abbiamo parlato col professor Massimo Ammaniti, psicoanalista, professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, autore del saggio  “E poi, i bambini: i nostri figli al tempo del Coronavirus”, (Solferino, 2020) e coautore, con Luca Cerniglia e Silvia Cimino di uno studio sull’impatto del periodo di isolamento sullo sviluppo psicologico infantile.

Professor Ammaniti, cosa stanno perdendo bambini e ragazzi di cruciale per la loro crescita?

Bambini e adolescenti sono stati privati della possibilità di svolgere molte delle attività che prima caratterizzavano la loro esistenza e ne segnavano le tappe di crescita: le lezioni scuola, gli incontri con i coetanei e con i parenti, lo sport. Queste abitudini familiari, i rituali ripetitivi della quotidianità, costituiscono una trama essenziale nelle vite dei più giovani, sono importanti nella costruzione della loro identità, aiutano ad affrontare i momenti di passaggio e i rapporti con gli altri. Gli stimoli sociali e i momenti di confronto con il gruppo, inoltre, sono basilari per lo sviluppo, non solo a livello psicologico, ma anche a livello cerebrale, perché il cervello in crescita è un cervello ipersociale, che ha costante bisogno di interazioni per maturare.

A causa delle restrizioni, oltretutto, è stata inibita anche la vivacità motoria di bambini e ragazzi, non più canalizzata verso l’esterno attraverso i mille impegni che caratterizzavano le giornate prima della pandemia.

Da queste mancanze deriva una serie di problematiche legate all’ansia, disturbi del comportamento (irritabilità, intolleranza alle regole, capricci, richieste insistenti), difficoltà del sonno (problemi di addormentamento, risvegli notturni). Potremmo definirla una vera e propria sindrome da deprivazione sociale, che, nel periodo della pandemia, ha determinato una crescita di sintomi quali irrequietezza, difficoltà di concentrazione, tristezza, ritiro, sintomi somatici, svogliatezza e selettività ai pasti, con aumento dei livelli di disregolazione emotiva e comportamentale e dei problemi del sonno.

Quali sono le difficoltà maggiori per i bambini in età prescolare?

 Le difficoltà maggiori sono legate al fatto che i ritmi quotidiani sono cambiati repentinamente. Il mondo esterno, finora naturale estensione della vita, assume tinte cupe e preoccupanti, è diventato improvvisamente un ambiente pericoloso e a rischio di contagio, in cui non ci si può muovere liberamente. Allo stesso tempo anche il clima emotivo che si respira all’interno di casa, in famiglia, è spesso carico di tensioni e di preoccupazioni, che, anche se dissimulate, spesso vengono avvertite anche dai più piccoli e possono intaccare il loro senso di sicurezza, fondamentale soprattutto nei primi anni di vita.

Già a pochi mesi, i bambini si confrontano con la paura di perdere i genitori, che garantiscono loro la sicurezza, e questa angoscia può riemergere anche in momenti successivi dello sviluppo, diventando centrale per esempio nei disturbi del sonno. L’addormentamento è un momento particolarmente critico, su cui si trasferiscono e si focalizzano tensioni e ansie accumulate durante il giorno, attraverso un meccanismo di travaso emotivo. L’avvicinarsi della notte, in altre parole, precipita i piccoli in una dimensione inquietante, in cui non vedendo più mamma e papà temono che possa loro succeder loro qualcosa.

Anche i bambini più grandi sembrano avere più bisogno dei genitori, in questa fase.

Quel che si creato è uno strano paradosso: la maggiore presenza dei genitori accresce nei bambini, che prima della pandemia erano abituati a essere più autonomi andando al nido o a scuola, il bisogno di mamma e papà e attiva comportamenti di dipendenza tipici del passato. Questo costante bisogno di vicinanza si è scontrato con gli impegni dei genitori, che spesso hanno manifestato insofferenza di fronte alle insistenze e ai pianti dei figli.

Alcuni bambini hanno reagito con capricci e crisi di rabbia, altri con comportamenti più allarmanti (per esempio ricominciando a fare la pipì a letto durante la notte) e con la perdita di altre acquisizioni che sembravano ormai consolidate. Si tratta di segnali regressivi da non sottovalutare, che rivela una situazione di stress e tensione.

Qual è l’atteggiamento raccomandato per far fronte allo stress dei più piccoli?

Il mio consiglio è quello di evitare di forzarli e di provare a raggiungere un compromesso, evitando punizioni o ricatti. È importante che, di fronte alle ostinazioni, mamma e papà trovino il modo di mediare, per esempio promettendo che la sera rimarranno accanto al figlio finché non si addormenta, ma l’indomani, dopo avergli letto una favola, lo lasceranno solo con la luce accesa, perché anche loro devono riposarsi. E infine, evitare di affidare troppo agli schermi e ai video la soluzione dei problemi.

Anche nei momenti segnati da difficoltà esterne, per esempio una pandemia, il supporto emotivo dei genitori è un importante fattore protettivo contro l’insorgere di sintomi psicopatologici, come suggerisce l’indagine “Post-traumatic Stress in Parents and Youth”, pubblicata nel 2013 e relativa al contagio della SARS negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda gli adolescenti? Nel libro sottolinea come siano privati di esperienze basilari per la loro crescita.

Ragazzi e ragazze stanno sperimentando un intenso senso di perdita.

Gli adolescenti hanno la necessità di esplorare, di mettersi alla prova, di esporsi a situazioni rischiose e di fare le prime esperienze sentimentali e sessuali; hanno ancora bisogno della disponibilità dei genitori ma devono iniziare un percorso di autonomia e di sperimentazione in cui il gruppo dei coetanei è fondamentale.

Per loro lo stallo obbligato in famiglia è particolarmente difficile, perché li riconduce al passato, da cui invece vogliono staccarsi. Ecco perché, a differenza del bambino, a casa l’adolescente tende a isolarsi ancora più di quanto avveniva prima. Questo ritiro è un modo per riprendere in mano la propria vita, allontanandosi dai familiari e dai riti quotidiani nei quali madre, padre e fratelli si ritrovano.

Si potrà recuperare ciò che è mancato a questa generazione di bambini e di ragazzi?

Per fortuna il cervello dei bambini e degli adolescenti ha una grande plasticità e sarà in grado di recuperare. Nella maggior parte dei casi si potranno quindi attivare dei meccanismi auto-correttivi, anche se, a mio parere, probabilmente, il 20-30% di loro continuerà a manifestare difficoltà sul piano, per esempio, della regolazione emotiva, con disturbi del sonno e sintomi ansiosi.

Le famiglie e la scuola dovranno essere consapevoli che, il giorno in cui riprenderà la vita normale, non tutto sarà subito risolto. Bisognerà continuare ad avere una particolare attenzione e cura per questa generazione e sostenerla nelle sue difficoltà.

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Sovrappeso nei bambini: quando intervenire?

Il problema del sovrappeso nei bambini rientra con lo sviluppo oppure rischia di peggiorare?
Scopriamo quali sono le conseguenze del sovrappeso nei bambini per la salute a lungo termine, i segnali d’allarme e le corrette modalità per affrontarlo efficacemente.

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Il problema del sovrappeso nei bambini rientra con lo sviluppo oppure rischia di peggiorare?

Scopriamo quali sono le conseguenze del sovrappeso nei bambini per la salute a lungo termine, i segnali d’allarme e le corrette modalità per affrontarlo efficacemente.

Il sovrappeso è un problema sempre più diffuso nella popolazione pediatrica e i dati Unicef rivelano che sono 40 milioni i bambini in eccesso ponderale già prima dei cinque anni di età. Nonostante l’allarme lanciato da medici e ricercatori, spesso il problema è sottovalutato e resta senza risposta, nella convinzione che sia senza conseguenze e in ogni caso destinato a regredire con la crescita.

Gli studi scientifici ci rivelano che, in realtà, avviene proprio il contrario:

un bambino in sovrappeso rischia di esserlo anche da adulto, soprattutto se lo squilibrio ponderale è importante.

Dal 26 al 41% dei bambini obesi in età prescolare sarà obeso da adulto, e in età scolare la percentuale sfiora addirittura il 60%, secondo i dati del Ministero della Salute.

Le possibili alterazioni dovute al sovrappeso durante l’età in cui l’organismo si sviluppa sono significative: accumulo di grasso nel fegato (steatosi), incremento dei livelli di insulina e aumento della probabilità di sviluppare diabete di tipo 2, rialzo di colesterolo, trigliceridi e acido urico, aumento della pressione arteriosa, disordini muscoloscheletrici dovuti al sovraccarico ponderale, maggior rischio di fratture.

E possono avere conseguenze a lungo termine, in età adulta: per  l’Oms, chi da bambino è stato in sovrappeso, è affetto con frequenza superiore alla media da disturbi cardiovascolari, da osteoartriti e da alcuni tipi di tumore (dell’endometrio, del colon e del seno).

Rilevanti anche le implicazioni psicologiche dell’obesità infantile: depressione, ansia, isolamento, con conseguenze sulla vita sociale e affettiva, a volte anche sulla carriera scolastica.

È bene quindi, non sottovalutare l’eccesso di peso nei bambini. Riconoscerlo, però, non è sempre facile.

Il bambino si è irrobustito in poco tempo, è crescita o sovrappeso?

L’abbiamo chiesto al dottor Francesco Iarrera, nutrizionista e responsabile del Centro di Riabilitazione Nutrizionale di Oliveri, associato all’AIDAP (Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso).

«Per capire se l’aumento di peso rientra nella norma, non utilizziamo valutazioni soggettive, che possono risentire del nostro rapporto con l’alimentazione e il cibo, ma facciamo riferimento al pediatra.

Sarà lo specialista a pesare il bambino, misurarne l’altezza e consegnare ai genitori un report con le curve di peso, uno strumento grafico che permette di capire se la crescita e l’aumento ponderale siano ottimali in rapporto all’età. Il medico valuterà se la curva si allontana dai valori medi tanto da meritare un intervento, e saprà indicare la strategia più adeguata.

Alcuni segnali di una condizione di disagio, in ogni caso, si possono cogliere semplicemente osservando e ascoltando il bambino. Attenzione, per esempio, se inizia a mangiare in maniera fortemente selettiva, orientando le scelte verso alcuni cibi “spazzatura”, come patatine, alimenti da fast food, dolciumi, merendine.

Prestiamo ascolto anche alle preoccupazioni relative al peso e alla forma del corpo (“mi sento grasso”, “ho la pancia”, “mi prendono in giro perché sono lento”, ecc.), evitando di svilirle o ridicolizzarle».

Meglio aspettare o agire subito?

« L’eccesso di peso nei bambini deve essere affrontato il prima possibile e in modo corretto.

Immaginate di avere a casa un tubo che perde, in un punto difficile da raggiungere e che voi decidiate di ignorarlo. La conseguenza sarà che il tubo perderà sempre più acqua e allagherà casa. Lo stesso può accadere con il sovrappeso di vostro figlio.

È bene agire in modo tempestivo. I bambini apprendono molto facilmente e sono degli ottimi pazienti, al contrario di quello che si crede.

È importante, però, cominciare a pensare più a una rieducazione nutrizionale che a una dieta fatta di dosaggi e restrizioni.

I dati clinici ci rivelano che, purtroppo, un bambino a cui viene somministrata una dieta ferrea difficilmente risolverà il suo problema, anzi correrà un rischio maggiore di essere un adulto obeso, oltre che di sviluppare un disturbo dell’alimentazione negli anni seguenti».

È preferibile rivolgersi al pediatra o cercare da soli un nutrizionista?

«Evitiamo il fai da te, ma andiamo dal pediatra, che potrà consigliare un cambiamento strategico delle abitudini di tutto il nucleo familiare (dieta e attività fisica) e fornire delle linee guida appropriate, ma anche inviare il bambino a uno dei centri di nutrizione pediatrica presenti sul territorio o suggerire un nutrizionista o un dietista esperto in alimentazione infantile».

Quali sono gli strumenti di intervento oggi considerati più efficaci?

«Fondamentale per tutti è l’educazione alimentare, da iniziate il prima possibile, anche prima dei sei anni di età, e che dovrebbe ovviamente interessare l’intero nucleo familiare.

In caso di difficoltà conclamate, tra gli interventi di cui è dimostrata l’efficacia spicca la terapia comportamentale basata sulla famiglia (FBT): un programma finalizzato a produrre cambiamenti nell’alimentazione e nell’attività fisica con un sistema di incentivi, che impegna tutto il nucleo familiare.

In pratica, si concorda con i bambini una sorta di gioco a premi. Per ogni cambiamento che il bambino riesce a mettere in pratica, riceve dal genitore un gettone con uno smile, che ripone in un salvadanaio. La conquista di alcuni gettoni si concretezza in un piccolo premio, correlando il comportamento alimentare sano con la ricompensa gratificante e riplasmando poco alla volta il comportamento del bambino.

Si tratta di premi piccoli, da elargire frequentemente (per esempio a cadenza settimanale), in modo tale che la motivazione sia sempre sostenuta: un paio di calzini divertenti, delle figurine (mai un premio fatto di cibo).

In questo modo si rinforzano le condotte benefiche per la salute e si facilita l’acquisizione di uno stile di vita più sano».

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