Cultura
Nessuno Vede Nero

Mettere a fuoco le cose è un atto fisico ma anche un’ attitudine emotiva e razionale; come diventa il mondo che ci circonda se i nostri occhi non riescono più a farlo? A questa domanda, con la leggerezza di una storia d’amore, ha provato a rispondere il regista Silvio Soldini che con il suo Il colore nascosto delle cose ha partecipato fuori concorso alla 74esima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Soldini torna ancora una volta sul tema dei non vedenti, dopo il documentario Per altri occhi, questa volta per raccontarci l’ incontro sentimentale tra mondi lontanissimi. Il mondo al buio dei non vedenti, al cinema era stato già audacemente presentato dal grande Dino Risi nel 1974, quando partecipò a Cannes con Profumo di donna, che valse il premio per la migliore interpretazione maschile a Vittorio Gassman. Un cult annunciato insomma, del quale nel 1992 verrà realizzato un degno remake con protagonista Al Pacino. Il colore nascosto delle cose non ha pretese da annali dell’ Istituto Luce, ha una narrazione semplice, dei personaggi forse poco inediti ma interpretati da due attori visibilmente in sintonia sulla scena e perfettamente calati nei propri ruoli. Lui è Teo interpretato da Adriano Giannini, il ruolo sembra cucito addosso a Giannini figlio, colpevole di non riuscire a replicare il fascino paterno in tutto il suo talento, ma quanto a bellezza non si discute.
Teo è un pubblicitario che, come da cliché, viaggia solo in moto e con fusciacca al collo. Ha il volto stropicciato dalle sue fughe da un letto all’altro, un pessimo rapporto con la famiglia di origine, una fidanzata trascurata (Arianna Ferzetti), un’amante (Valentina Carnelutti) e un collega al quale raccontare le sue gesta notturne. Valeria Golino invece è Emma, un’osteopata non vedente che Teo conosce ad un evento serale dal titolo Dialoghi al buio.
Nel gioco della casualità, Soldini fa incontrare i due protagonisti in un non luogo, al buio le apparenze si dissolvono e le voci prendono forma. La Golino è una di quelle attrici alla quale i personaggi femminili che interpreta cadono addosso come abiti di sartoria. La voce roca e un po’ consumata di Emma è la prima cosa che seduce Teo, il quale benché già abbastanza impegnato tra un’amante e una fidanzata, decide di lanciarsi comunque alla conquista di una donna totalmente diversa dai suoi canoni, e che che nonostante l’handicap, gli regala una ventata di leggerezza.
Se l’intento del regista era rivelarci uno scenario del tutto inatteso sulla quotidianità dei non vedenti ci è riuscito, perché Emma è una donna risolta, che infonde serenità, piena di interessi e una straordinaria sensibilità che le consente di “vedere” in modo diverso.
Il lato comico del film è invece rappresentato in maniera prepotente soprattutto dal personaggio di Patti interpretato da Arianna Scommegna, brillante attrice teatrale, che fa l’amica ipovedente ironica e trascinatrice di Emma, sua la migliore battuta di tutto il film: “ Se l’amore è cieca Cupido è ipovedente!”.
La delicatezza di Soldini nello sfiorare temi complicati legati all’autonomia delle donne e all’innata capacità femminile di adeguarsi al cambiamento è un po’ la cifra stilistica del regista, il quale anche in Pane e tulipani, un cult della sua filmografia, ci aveva parlato di piccole e intime rivoluzioni esistenziali.
L’idea romantica dell’amore che cambia l’ordine delle cose, stravolge schemi e supera le montagne, rivelando a noi e all’altro un’immagine diversa di se stessi è vincente in questo film. La Golino è riuscita a rendere autentico il suo personaggio sia sotto l’aspetto emotivo che gestuale. Infatti quando Emma parlando di sé a Teo spiega con estrema dolcezza: “nessuno vede nero, qualcuno addirittura vede bianco”, la battuta in sé sembra contenere un significato che va oltre il letterale.
Il colore nascosto delle cose, è una sorta di riflessione a voce alta sull’attitudine che si vuole avere verso la vita, nonostante la presenza di handicap presunti o reali. È l’idea che considerando prospettive diverse ci si possa riscoprire e sorprendersi, anche al buio.
Cultura
21 giorni per rinascere
21 giorni per rinascere è l’ultima fatica letteraria del prof. Franco Berrino, e non solo. E’ un libro prezioso scritto con Daniel Lumera e David Mariani. E’ un percorso per cambiare vita, ringiovanire e occuparsi della propria salute. E’ un accompagnamento al cambiamento, un invito a volersi più bene sul serio. Un libro da leggere a settembre. E’ un po’ capodanno vero?

Cambiare si può, spesso si desidera cambiare, ma è così difficile! Ci sono resistenze interne, un po’ di pigrizia, forse anche paura di non riuscirci davvero. O anche paura di riuscirci sul serio. Sarà capitato anche a voi di pensare di voler cambiare, ma di non riuscire a tradurre in azioni il nostro desiderio.
Quando si parla di cambiare abitudini si pensa facilmente alle dipendenze, al modo che abbiamo di alimentarci, alla nostra attività fisica. Bene, tutti in teoria – chi più chi meno – pensa di sapere in liena teorica cosa occorrerebbe fare, ma non sempre è così.
Iniziamo con un punto importante: per ottenere grandi cambiamenti dobbiamo iniziare a cambiare piccole abitudini; fare piccoli passi, un passo alla volta. Ma come si fa a creare una nuova abitudine? Per i nostri esperti, per Franco Berrino, Daniel Lumera e David Mariani per instaurare una nuova abitudine occorrono 21 giorni. Il giro di boa è 21 giorni.
E poi stacchiamoci dall’idea della privazione, che sa di punizione e le punizioni non piacciono veramente a nessuno. Pensiamo ad aggiungere: contemporaneamente aggiungendo, toglieremo. Aggiungendo della frutta secca alla colazione sarà più facile eliminare il cornetto per esempio. Oppure esplorando nuovi tipi di tè potremo limitare l’uso del caffè.
Piccoli gesti in direzione della nostra salute.
21 giorni per rinascere è una guida che vi accompagna verso la creazione di nuove abitudini. Fatevi un regalo, ne sarete felici.
Qui la nostra intervista al professor Franco Berrino.
Cultura
La forma dell’acqua
Ogni storia d’amore ha la sua forma, la sua natura e parla la sua lingua. È questa la favola di The shape of water, (la forma dell’acqua) l’ultimo film del visionario Guillermo del Toro, Leone d’oro alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia e già candidato a 13 nomination agli Oscar, in uscita il prossimo 14 febbraio. […]

Ogni storia d’amore ha la sua forma, la sua natura e parla la sua lingua. È questa la favola di The shape of water, (la forma dell’acqua) l’ultimo film del visionario Guillermo del Toro, Leone d’oro alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia e già candidato a 13 nomination agli Oscar, in uscita il prossimo 14 febbraio.
Siamo a Baltimora nel 1962, in piena Guerra Fredda, e gli americani catturano e segregano in un laboratorio governativo una strana creatura degli abissi, che secondo una sarebbe una divinità guaritrice.
Elisa (Sally Hawkins) è una timida ragazza muta che lavora come inserviente nel laboratorio. Ha due soli amici: la sua collega di colore Zelda, – Octavia Spencer, già premio Oscar, che ricordiamo per la sua magistrale interpretazione ne Il diritto di contare di Theodore Melfi – e Giles (Richard Jenkins) un vicino di casa discriminato in quanto omosessuale con il quale Elisa condivide la sua solitudine.
In questo laboratorio di spie americane e infiltrati del KGB, il capo – Michael Shannon, lo sceriffo di Animali Notturni di Tom Ford – è un cinico aguzzino che sevizia la creatura alla ricerca di chissà quale verità sulla sua natura. Sullo sfondo di questa “aliena” storia d’amore tra Elisa e l’uomo acquatico, Guillermo del Toro, con spirito messicano, dipinge il ritratto di un’America accecata dalla guerra e dal complottismo, tanto da non accorgersi che quella creatura è davvero la misteriosa forma di intelligenza di un altro mondo.
Elisa priva di voce si avvicina al mostro acquatico e riesce a stabilire con lui un contatto emotivo unico.
Ispirato dagli archetipi fiabeschi presenti nell’immaginario collettivo il regista ha dichiarato: “Volevo creare una storia bella ed elegante sulla speranza e sulla redenzione come antidoto al cinismo dei nostri tempi. Volevo che questa storia prendesse la forma di una fiaba, in cui un umile essere umano si trovasse a vivere un’avventura più grande e trascendente di qualsiasi altro evento della sua vita. Ho pensato che sarebbe stata una buona idea contrapporre quell’amore a qualcosa di tanto malvagio come l’odio tra le nazioni complice della Guerra Fredda, o l’avversione tra le persone causato dalle differenze di razza, colore, abilità e genere.”
È così che attraverso il fantasy Guillermo del Toro supera i limiti della realtà, fa appello agli amanti e ai sognatori di resistere al cinismo dei tempi, che tutto logora, e di trascinare fuori dagli abissi ancestrali delle nostre paure l’amore con la A maiuscola, l’amore capace di guarire e far rinascere.
Cultura
Chiamami con il tuo nome: l’estate, il desiderio e l’amore.
Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, candidato con 4 nomination agli Oscar 2018, è uno di quei film che rimarrà nella storia del cinema come una delle pellicole più romantiche degli ultimi dieci anni.
Luca Guadagnino regista siciliano tanto amato all’estero quanto criticato dalla stampa italiana, è uno di quei cineasti sul quale non avremmo scommesso più di tanto al suo debutto con Melissa P. […]

Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, candidato con 4 nomination agli Oscar 2018, è uno di quei film che rimarrà nella storia del cinema come una delle pellicole più romantiche degli ultimi dieci anni.
Luca Guadagnino regista siciliano tanto amato all’estero quanto criticato dalla stampa italiana, è uno di quei cineasti sul quale non avremmo scommesso più di tanto al suo debutto con Melissa P.
Invece prima di Chiamami col tuo nome, avevamo già cambiato opinione sul suo cinema con Io sono l’amore e A Bigger Splash, presentato a Venezia 72, che vedeva come protagonista una splendida Tilda Winston in versione rockstar in vacanza a Pantelleria. E anche in quell’occasione Guadagnino aveva fatto il pieno dei consensi presso la stampa estera e il pieno delle critiche in casa. Misteri del pensiero omologato probabilmente.
Chiamami col tuo nome è tratto dall’omonimo romanzo di Andrè Acìman che compare fugacemente anche nel film di Guadagnino. La sceneggiatura è stata adattata anche grazie al contributo dello scrittore e regista James Ivory che è anche produttore associato.
Nella trasposizione cinematografica il romanzo è ambientato a Crema città di residenza del regista, anziché in Liguria. La famiglia Perlman è una famiglia di colti borghesi illuminati che vive in un splendido casale di campagna. Siamo nell’estate del 1983 ed Elio, interpretato da Thimotée Chalamet, è un adolescente di 17 anni fuori dal comune, che passa l’estate a scrivere di musica, a leggere e a flirtare con Marzia. Oliver (Armie Hammer) è un aitante studente di archeologia del New England, che il padre di Elio ospita per aiutarlo a completare una tesi di dottorato.
Guadagnino ci fa fare un tuffo nostalgico nel passato, in una un’estate tipicamente italiana, fatta di corse sudate in bici, partite a pallavolo, bagni nel lago tra un canzone e l’altra della Bertè, gustose cene sotto le stelle e l’amore sognato che scoppia all’improvviso.
Chiamami col tuo nome è l’estate nel cuore che fa trepidare nei tormenti del primo amore, scivolare in profondi abissi e poi volare fino alle vertigini.
In Elio c’è la purezza di un adolescente così precocemente già pregno di cultura e bellezza da sentirsi fuori luogo in mezzo ai suoi coetanei. Il padre è un docente di archeologia e la madre Annella (interpretata da Amira Casar) è una donna che riflette lo stereotipo della moglie bella, accogliente, affettuosa e silente osservatrice.
Elio respira una libertà di espressione fuori dal comune per la società italiana di provincia degli anni ‘80. È chiaro che Guadagnino, ancora una volta, come in A Bigger Spalsh, ci fotografa l’estratto borghese di una classe sociale con uno stile di vita elitario.
All’arrivo di Oliver, Elio è costretto a dividere con lui la stanza; a primo acchito non vi è empatia fra i due, ma quasi un gioco di scherno. Elio si sente prevaricato dall’arrogante capacità di seduzione di Oliver, entrambi ostentano reciprocamente indifferenza nell’assoluta inconsapevolezza di ciò che li travolgerà.
Chiamami col tuo nome è un film che ha avuto una lunga gestazione tra una scrittura e l’altra, i produttori Luca Spears e Howard Rosenman hanno letto il libro per la prima volta nel 2008. Nel 2014 James Ivory viene coinvolto negli adattamenti della sceneggiatura e quasi 9 anni dopo cominciano le riprese.
La location scelta da Guadagnino è una villa abbandonata a Moscazzano vicino Crema, che la set decorator Violante Visconti, nipote di Luchino, ha reso l’elegante villa di famiglia del XII secolo.
Nelle sue note di regia Guadagnino dice: “Mi piace pensare che Chiamami col tuo nome chiuda una trilogia di film sul desiderio, con Io sono l’amore e A Bigger Splash.
Mentre nei precedenti il desiderio spingeva al possesso, al rimpianto, al disprezzo, al bisogno di liberazione, in Chiamami col tuo nome abbiamo voluto esplorare l’idillio della giovinezza. Elio, Oliver e Marzia sono irretiti in quella splendida confusione che una volta Truman Capote ha descritto, affermando “l’amore, non avendo una mappa, non conosce confini”.
Ed è così che Elio scopre la felicità dell’amore rivelato ma anche il dolore bruciante della perdita, e poi del ritorno alle convenzioni sociali. È un amore che seppur breve rimarrà inciso nella memoria.
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