Salute
L’arte e la bellezza fanno bene alla salute e ci rendono più felici
Possono il bello, l’arte, la natura, farci stare meglio? Sembra proprio di sì. Al pari di una dieta equilibrata e al sano movimento quotidiano, anche un tempo libero di qualità e l’esposizione alla bellezza concorrono a custodire e a favorire un buon stato di salute. L’arte e la bellezza come strategia di prevenzione! Le ragioni ce le spiega un esperto, il Prof Enzo Grossi, già docente dello IULM di Milano e dell’Università di Bologna, che da anni studia il legame fra salute e arte.

Possono il bello, l’arte, la natura, farci stare meglio? Sembra proprio di sì. Al pari di una dieta equilibrata e al sano movimento quotidiano, anche un tempo libero di qualità e l’esposizione alla bellezza concorrono a custodire e a favorire un buon stato di salute. L’arte e la bellezza come strategia di prevenzione! Le ragioni ce le spiega un esperto, il Prof Enzo Grossi, già docente dello IULM di Milano e dell’Università di Bologna, che da anni studia il legame fra salute e arte.
Com’è nata l’idea di fare ricerca scientifica sul legame fra arte e salute?
Ho iniziato una decina di anni fa a indagare sulla relazione esistente tra il grado di partecipazione culturale e il cosiddetto psychological well-being (benessere psicologico). E ho scoperto che, tra i fattori che concorrono a questo sentimento soggettivo estremamente complesso, il primo elemento determinante, dopo lo stato di salute fisica, è, senza dubbio, l’esposizione al bello. Certo, anche l’età, l’istruzione, il tipo di professione, il reddito, la zona geografica di appartenenza, influenzano il grado di benessere percepito dai soggetti. Ma possiamo comunque affermare che il bello fa bene alla salute.
Per dimostrarlo ha condotto una vera e propria indagine scientifica.
L’arte ci fa stare bene ma come poterlo provare se non misurandolo? È quello che abbiamo fatto portando 100 volontari ad ammirare i magnifici affreschi della cupola ellittica settecentesca della basilica di Vicoforte, vicino a Cuneo. Imbragati, quindi in condizioni di sicurezza, sono stati condotti lassù, proprio sotto la cupola. In questo modo, potevano godere di una prospettiva eccezionale e vivere un’esperienza emozionante e ricca di stimoli estetici.
Il grado di benessere percepito ha trovato riscontro in un test salivare effettuato prima e dopo l’esperimento. Siamo stati sorpresi dal risultato che mostrava una drastica caduta dei livelli di cortisolo. L’ormone dello stress era sceso mediamente del 60%.
Esistono altri esperimenti di questo tipo che comprovino gli effetti benefici dell’esposizione al bello?
Certamente. Nella letteratura scientifica internazionale ce ne sono vari. Per esempio, uno studio americano di qualche anno fa, condotto dall’Università di Berkley (California), mostrava una notevole diminuzione di alcuni marcatori dell’infiammazione, le citochine pro-infiammatorie a seguito di un’esperienza estetica.
Sta dicendo che, oltre all’appagamento estetico, la fruizione culturale avrebbe addirittura un “effetto antinfiammatorio”?
Andare al museo, alle mostre, ai concerti sono attività che hanno a che fare con i circuiti neurotrofici che sostengono la salute del cervello e bloccano l’attività nociva dei mediatori dell’infiammazione, in particolare del cortisolo che “fa danni” quando siamo sotto stress. Non a caso, lo stress è stato recentemente definito come la malattia del nuovo secolo. Molte delle malattie croniche tipiche della società moderna sono in parte legate al nostro stile di vita.
È per questo che la partecipazione culturale si associa non solo a un prolungamento dell’aspettativa di vita, ma anche a un effetto preventivo delle principali patologie degenerative, tra cui il morbo d’Alzheimer.
In che senso?
Il benessere psicologico è il punto di partenza per ottenere un riverbero sulla salute fisica, sulla longevità e sulla riduzione del declino cognitivo. Un’attività mentale di livello elevato si associa a un dimezzamento del rischio di demenza. I progressi in campo medico ci hanno regalato una sopravvivenza più lunga, ma ne paghiamo il prezzo rimanendo, sempre più tempo, malati cronici.
Abbiamo parlato del cortisolo, l’ormone dello stress. Parliamo ora dell’ossitocina. L’esposizione al bello può stimolare la secrezione dell’ormone della felicità?
È stato visto, anche tramite tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale, come la risonanza magnetica funzionale, che l’arte stimola le aree coinvolte nella sensazione di ricompensa e benessere. Senz’altro quindi, questa stimolazione genera una risposta biochimica e la messa in circolo dell’ossitocina che è l’ormone dell’amore e dello stare bene con gli altri. Rimanere incantati davanti a un dipinto è un po’ come innamorarsi.
Si stabilisce quindi quasi una relazione fra l’osservatore e l’opera d’arte?
Non solo. Quando siamo in un museo o a un concerto, non è solo il bello a farci stare bene. È anche la condivisione del bello. Il fatto che altre persone intorno a noi provino anch’esse la stessa bellissima sensazione fa entrare in gioco i cosiddetti “neuroni specchio” (importante scoperta dell’Italiano Giacomo Rizzolatti dell’Università di Parma ), grazie ai quali tendiamo a metterci nei panni delle persone che ci stanno vicino e a vivere le loro stesse emozioni e azioni come se fossimo noi stessi, in prima persona, a eseguirle. Se vediamo che una persona è contenta anche il nostro cervello attiva delle aree che sono legate alla contentezza.
Possiamo parlare di empatia?
Assolutamente sì. Ed è proprio grazie all’empatia che è molto meglio fruire della bellezza in compagnia che non da soli. L’empatia crea una specie di sincronia fra cervello e cervello con un conseguente effetto moltiplicatore. Si apprezza maggiormente l’armonia di una prospettiva architettonica o di un paesaggio esterno in lontananza se attorniati da persone amiche sorridenti ed estatiche. Il film piace di più se visto in compagnia, al buio di una sala cinematografica. È un fenomeno ubiquitario in qualsiasi tipo di esperienza.
A volte però, l’arte può anche provocare un senso di sconforto e di angoscia nello spettatore. Pensiamo, ad esempio alla sindrome di Stendhal.
Le emozioni negative suscitate dall’arte nella sindrome di Stendhal sono provocate dall’eccesso del bello. Come dire, è talmente forte la sensazione di piacevolezza che questa sensazione poi mi fa svenire. Come quando si piange di gioia. Un eccesso di felicità che non riesco a contenere.
La bellezza quindi, è come un medicinale che va preso a piccole dosi?
Goethe disse un giorno che “la bellezza è negli occhi di chi guarda”. Un modo di dire che la bellezza è già dentro di noi. Qualche tempo fa è stato scoperto “il centro della bellezza”. Merito dello scienziato inglese Semir Zeki che fece vedere una serie di dipinti diversi – classici, astratti, paesaggi, ritratti – a dei volontari chiedendo loro di giudicarli e sottoponendoli a risonanza magnetica funzionale. Vide allora che i quadri ritenuti belli producevano tutti lo stesso effetto nell’osservatore. Attenzione: non gli stessi quadri. Per qualcuno poteva essere bello La Primavera di Botticelli per un altro un ritratto di Francis Bacon. Non ha importanza. Il bello è soggettivo. Ma quando una persona incontra il “suo” bello la sua reazione, le emozioni che prova, sono le stesse.
Salute
Buoni propositi 2021. Sfrutta l’effetto nuovo inizio. Le 3 regole per un reale cambiamento.

«Da gennaio cambio vita». È davvero possibile?
Scopri come far sì che i buoni propositi per il 2021 si trasformino in una trasformazione reale, per partire davvero con spirito nuovo.
Il passaggio dell’anno porta con sé la nozione di svolta. Immaginiamo i mesi a venire come tante pagine bianche, tutte opportunità da scrivere. È inevitabile e non si tratta solo di convenzione. In psicologia si chiama “effetto nuovo inizio”, è la spinta motivazionale al cambiamento che ci investe nei momenti di cesura e di passaggio, così universale e tangibile da essere sfruttata molto anche nei processi decisionali legati all’acquisto. Ecco anche perché nei primi giorni di gennaio fioriscono gli sconti e offerte imperdibili sugli abbonamenti annuali.
Il nuovo inizio induce effettivamente una sorta di reset mentale e attiva una spinta innovatrice, utile per riprogrammare mete e obiettivi. Si intraprendono diete ferree, ci si iscrive a corsi di formazione, si anticipa la sveglia per rendere la giornata più produttiva. Si parte alla carica, con entusiasmo e energie fresche e rinnovate. Allora perché la maggior parte delle grandi risoluzioni viene abbandonata nel giro di qualche settimana?
Siamo davvero pronti a ricominciare?
Attribuiamo a date precise il potere di scandire il fluire del tempo e di separare il passato dal presente e dal futuro. Queste cesure temporali ci danno anche la sensazione di delimitare varie fasi della vita e della nostra identità, separando ciò che stiamo stati da quel che siamo e che potremmo diventare. Si ha la sensazione che, da quel momento in poi, tutto potrà essere diverso. Si sono commessi degli errori? Può essere, ma questi non contano più, se ora c’è la possibilità di ricominciare da capo.
Non solo l’inizio dell’anno, ma anche un cambio di stagione, il primo del mese, il lunedì e perfino l’alba possono darci l’energia adatta per un cambiamento. Più questi riferimenti temporali sono riconosciuti a livello collettivo o significativi per l’individuo (per es. l’anniversario di un lutto o della fine di una relazione), maggiore è la loro presa su di noi. Quest’anno immaginiamo un desiderio collettivo di chiudere con il 2020 molto intenso e allora non sciupiamo l’occasione per realizzare un cambiamento che ci porti ad essere più felici.
Ecco le 3 regole per non perdere l’effetto del nuovo inizio.
No ai gesti impulsivi: serve strategia
L’effetto nuovo inizio, tuttavia, dopo un po’ sfuma. La spinta iniziale e il desiderio, da soli, non bastano. Ed ecco spiegato il fallimento di tanti progetti di inizio anno. Per concretizzarli, il segreto è far sì che mettano radici nella nostra motivazione e nella routine, altrimenti li accantoneremo senza neanche accorgercene.
Prima di iniziare, proviamo quindi a chiederci che significato ha per noi il raggiungimento di un obiettivo e perché lo riteniamo importante. Quali conseguenze potrebbe avere la sua realizzazione? Quali le implicazioni, positive o negative, per noi e per chi ci circonda? E soprattutto, siamo davvero disposti ad accogliere gli effetti di quel cambiamento?
Spostiamo poi la riflessione su un piano pratico. Quali sono gli step per raggiungere l’obiettivo? Come pensiamo di inserirlo, concretamente nella nostra vita? Che costi avrà in termini di tempo, impegno e denaro?
Scriviamo le risposte su un taccuino, registriamole in una nota vocale indirizzata a noi stessi oppure parliamone con un amico.
Questo ci aiuterà a introiettare l’idea, a renderla un po’ più nostra, ma anche a selezionare gli obiettivi che davvero fanno per noi, scremando ciò di cui non ci importa realmente e che finiremmo per lasciar perdere nel giro di poco. E, al contempo, a essere preparati agli ostacoli e alle difficoltà che, inevitabilmente, si incontreranno.
A piccoli step, verso la meta.
Invece di progettare una ristrutturazione drastica e completa dell’esistenza, che può rivelarsi irrealistica e difficilmente sostenibile, è utile focalizzarsi su un’area alla volta e procedere per piccoli step, suddividendo un obiettivo impegnativo in blocchi di sotto-obiettivi più facili da conseguire a breve termine.
Anziché prefiggersi di perdere 10 chili, cominciare con 2. Non imporsi un allenamento quotidiano: iniziare una volta a settimana.
Se l’obiettivo è troppo ambizioso e vago, con il passare dei giorni sarà sempre più difficile mantenere viva la motivazione necessaria a compiere i sacrifici che servono a portarlo avanti. Tenderemo a procrastinare, saremo presi dall’ansia e desisteremo più facilmente.
Obiettivi minori e sostenibili, invece, risultano più gratificanti, alimentano l’autostima e ci mantengono motivati. E sono anche più strategici: una volta raggiunti, prefiggersi un ulteriore passo in avanti nell’ambito di una routine già avviata (perdere altri 2 kg, allenarsi mezz’ora in più alla settimana, ecc.) costerà meno sforzi e ci avvicinerà alla meta finale.
Fare spazio al nuovo
Per favorire un nuovo inizio, è utile alleggerire la mente e la vita quotidiana da ciò che, con il tempo, è diventato zavorra. Passiamo in rassegna la casa, l’armadio, il computer, la casella delle mail e il cellulare. Eliminiamo gli oggetti, i vestiti, i documenti non più utili e attuali. Non stiamo solo riordinando, ma compiendo un’operazione di rinnovamento, per fare spazio a tutto ciò che potrà arricchirci nei mesi a venire. Facciamo spazio al nuovo anche nei comportamenti: individuiamo quei gesti, quelle azioni disfunzionali che ci portano ad ottenere inevitabilmente sempre gli stessi risultati che ci fanno soffrire. Anche in questo caso vale la regola del piccolo passo. Piccoli passi amorevoli per noi stessi. Non guardiamo la montagna che ci sembra di dover scalare per riuscire a risolvere i nostri problemi esistenziali; iniziamo con un piccolo passo, una piccola buona abitudine e una volta consolidata portiamo nel nostro quotidiano altre novità. Pensiamo ad aggiungere più che a sottrarre. Buone abitudini ridurranno di conseguenza quelle che non ci fanno bene.
Salute
La telemedicina: il paziente al centro della rivoluzione digitale
Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.

Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.
Quando parliamo di telemedicina, non ci riferiamo semplicemente ad una serie di visite attraverso lo strumento virtuale o a delle consulenze mediche da remoto, ma a progetti di vera e propria assistenza territoriale al paziente, per coniugare cura e domicilio e favorire il rapporto assistenziale ospedale-territorio-paziente.
I vantaggi dell’assistenza ai malati cronici e rari
Le patologie più complesse, croniche, sia rare che non, hanno un alto tasso di comorbilità e richiedono più specialisti che interagiscano con il paziente nonché fra loro, con un impegno notevole da parte del paziente stesso, così come dei caregivers che se ne prendono cura, per sostenere visite spesso anche lontano dal proprio domicilio, per i costi, e talvolta anche per integrare le varie consulenze ed informazioni ricevute.
I primi progetti ospedalieri di telemedicina, sono stati realizzati proprio per sopperire a tutte queste criticità, e nello stesso tempo per migliorare anche la tempestività dei ricoveri, soprattutto in situazioni di emergenza.
Da diversi anni è emersa la necessità di apportare un cambiamento nel supporto ai pazienti più a rischio, cercando di influenzarne positivamente la qualità della vita e la gestione della malattia, e la pandemia ha evidenziato quanta differenza possa fare l’ avvalersi delle tecnologie digitali, nel monitorare coloro che sono più a rischio.
L’uso di app per smartphone e per dispositivi mobili, attraverso le quali inserire i valori dei parametri da monitorare e comunicarli in tempo reale all’equipe di riferimento, programmi di teleconsulto, che consentono la condivisione e la valutazione in contemporanea della situazione clinica, da parte di più specialisti, programmi che consentono la valutazione di sindromi genetiche, sulla base di caratteristiche morfologiche, questi sono solo alcuni dei progetti e degli strumenti a cui si lavora da qualche anno.
Telemedicina e malattie cardiovascolari
I pazienti considerati a rischio di malattie cardiovascolari, ipertesi, così come diverse persone con un principio di sindrome metabolica, sono stati tra i primi ad usufruire di progetti pilota di telemedicina, con il controllo attivo da parte degli ambulatori di riferimento, soprattutto per la gestione della terapia e per valutare il rapporto aderenza terapeutica – benefici. Questi percorsi sono stati di grande utilità per migliorare anche la prevenzione, per comunicare con il paziente sui possibili dubbi, effetti collaterali, e sull’impatto dello stile di vita nell’acuirsi del rischio. La possibilità di monitorare la frequenza cardiaca attraverso delle app per dispositivi mobili è ormai una realtà, così come per la pressione arteriosa, il che consente a molti pazienti cardiopatici, ipertesi, e con fattori di rischio importanti (obesità, diabete, dislipidemie) di autogestirsi quotidianamente e nel contempo ricevere supporto dagli specialisti, ad esempio quando l’aderenza terapeutica non è costante ed è necessario intervenire.
La medicina digitale e il paziente al centro
Uno degli obiettivi che si pone la telemedicina, non è ridurre il rapporto medico paziente ad un monitor o ad un messaggio, ma al contrario è quello di mettere la persona al centro, il paziente al centro, ed intorno costruire una rete fatta di servizi, che non solo siano in grado di assisterlo nella malattia ma anche garantire quella qualità di vita, che spesso una patologia complessa fa perdere.
La teleassistenza vuol favorire sempre di più l’home care, perché il paziente possa spostarsi da casa solo quando necessario, evitando rischi che molte persone fragili corrono, nonché uno stress fisico e mentale non indifferente. Pensiamo ad esempio a persone molto anziane, ai soggetti immunodepressi, con patologia autoimmune, trapiantati d’organo, o a coloro che si sottopongono a terapie oncologiche, possono trovare un grande beneficio dalla teleassistenza, specie nel monitoraggio quotidiano, poiché nello stesso tempo il medico di riferimento può controllare qualsiasi cambiamento in tempo reale e comunicare con il paziente, che si sente costantemente seguito, anche quando non si reca di persona nella struttura. È importante sottolineare come la costruzione della rete di servizi di e-health ed in presenza possa comprendere anche tutta quella parte burocratica di piani terapeutici, richiesta di farmaci e di servizi assistenziali, che spesso diventa macchinosa e complicata.
Dalla neurologia al supporto psicologico
Uno dei campi in cui la telemedicina sta trovando applicazione, con successo, è la neurologia, e molto interessante è un articolo riportato dal British Medical Journal pubblicato su Practical Neurology, dove vengono tracciate le linee guida per i neurologi, su come gestire i pazienti in teleassistenza, e sull’importanza di fare in modo che il paziente o il familiare/caregiver sia dotato di un adeguato strumento digitale, con schermo e telecamera e di una connessione internet. Oltre all’anamnesi familiare e a tutta la parte legata alla storia del paziente, attraverso la televisita è possibile valutare eventuali difficoltà nel linguaggio, nel movimento e nella coordinazione ( si può chiedere di alzarsi e sedersi, camminare, fare movimenti a richiesta), e nell’attenzione. Tutto questo lavoro preliminare avvantaggia molto la futura diagnosi, con guadagno di tempo e per chi non ha la possibilità di recarsi facilmente ad una visita in presenza, non sostituendosi alla medicina ambulatoriale ed ospedaliera ma integrandosi con essa e rendendola fruibile a più persone possibili.
Le potenzialità della medicina digitale si prestano bene ai servizi di supporto psicologico, che sono sempre più richiesti, dagli adolescenti alle problematiche postpartum, alla consulenza familiare fino all’impatto delle altre malattie nella propria vita. Potrebbe sembrare un modo asettico per affrontare la psicoterapia, e invece ha molti risvolti positivi, soprattutto quando si ha difficoltà ad integrarla con altri impegni, per molti l’utilizzo di uno strumento virtuale può essere anche un modo per superare eventuali paure, imbarazzi nell’affrontare la richiesta di aiuto, e lì dove mancano, sul territorio, servizi ambulatoriali di supporto psicologico, questo può essere un sistema concreto per supportare più persone ed interagire con altri specialisti per costruire percorsi adeguati.
La medicina del presente e del futuro ha bisogno della tecnologia digitale, per offrire al paziente, al centro di tutto, i migliori percorsi di cura, capaci di offrire diagnosi rapide, terapie adeguate, qualità di vita e rapporto medico-paziente, al quale niente mai potrà sostituirsi.
Salute
Alimentazione e fibromialgia: ecco le regole d’oro
L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.

L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.
In attesa di trovare una terapia valida ed efficace in grado di aiutare tutti i pazienti che soffrono di fibromialgia, è importante che, chi ne soffre, riesca a mitigare i sintomi del disturbo in modo da migliorare la propria qualità della vita.
Un aspetto importante, non unico ma comunque centrale, è quello relativo all’alimentazione, poiché la letteratura scientifica sta evidenziando una correlazione stretta tra il consumo di alcune tipologie di alimenti e il peggioramento delle condizioni cliniche del paziente. Vale dunque la pena approfondire il discorso e lo possiamo fare con un esperto: si tratta del dottor Daniele Buttitta, medico e nutrizionista che ha svolto attività di consulenza al tavolo tecnico regionale (per la regione Sicilia) sul trattamento della fibromialgia.
Dottore, cominciamo subito con la domanda più importante: la modifica di alcune abitudini alimentari può essere di giovamento al paziente fibromialgico?
Entro una certa misura sì, e lo dico tanto in base alla la mia esperienza, quanto confortato dalla letteratura scientifica che si sta producendo in merito, da alcuni anni a questa parte.
Ciò detto dobbiamo sempre tenere conto del fatto che la fibromialgia è una patologia complessa e che richiede uno sforzo multidisciplinare, per offrire i risultati migliori.
I trattamenti monospecialistici non hanno dato, a oggi, risultati ottimali e pertanto preferirei che i pazienti che soffrono di questa patologia avessero ben presente che un approccio nutrizionale alla malattia deve essere considerato parte di un percorso, ma non certo tutto il tragitto.
Qual è l’importanza della corretta nutrizione, per un paziente affetto da fibromialgia?
La correzione di alcune abitudini e l’educazione a una nutrizione più adatta alle caratteristiche del fibromialgico ha dimostrato di poter facilitare il recupero di una buona qualità della vita.
Per prima cosa ritengo molto importante cercare di recuperare la regolarità intestinale, ripristinando quindi una corretta composizione della flora e migliorando l’efficienza delle mucose. Un intestino che funziona bene, infatti, consente di elaborare e assorbire meglio i nutrienti contenuti nel cibo, così da evitare carenze e diminuire i disturbi di tipo enterico che spesso affliggono i pazienti affetti da fibromialgia. In questo modo migliora la resistenza alla fatica, diminuisce la sensibilità al dolore, migliora la qualità del sonno e con esso anche la prontezza cognitiva.
Come si recupera una buona funzione intestinale?
Le ricerche indicano che alcuni alimenti peggiorano la funzione stessa.
Tra questi cito in primo luogo gli zuccheri semplici e le farine raffinate, che andrebbero eliminate totalmente. Dopodiché, almeno in una prima fase, io preferisco eliminare latte e latticini. Una terza categoria alimentare, che va eliminata dalla dieta del fibromialgico sono le solanacee e quindi i peperoni, i pomodori, le melanzane e le patate. Un discorso a parte va fatto per il mais.
Che discorso?
Anche se i pazienti fibromialgici non sono celiaci in senso stretto, si è notato che una riduzione del glutine, nella loro dieta, porta benefici.
Tuttavia, in tale sostituzione, si tende ad abusare di prodotti derivati dal mais che, nonostante non contengano glutine, non sono comunque ideali per il paziente fibromialgico (probabilmente per la sensibilità alle fumonisine, funghi microscopici che possono produrre specifiche tossine in grado di esacerbare i sintomi della FM.) Pertanto io suggerisco l’eliminazione del mais e dei suoi derivati, e incoraggio invece il consumo di farine alternative quali grano saraceno, farine di riso, miglio, quinoa eccetera.
Quali sono gli effetti di queste limitazioni, per i pazienti fibromialgici?
L’idea è che servano a preparare il terreno biologico, in modo da rendere più efficaci le terapie proposte da altri specialisti.
L’aspetto della preparazione del terreno biologico è importante, poiché dobbiamo pensare che spesso questi pazienti arrivano a una diagnosi dopo molti anni di nomadismo medico e dopo avere assunto farmaci e integratori di ogni genere. Si rende allora necessario, prima ancora di ogni altro intervento, correggere il metabolismo del paziente, in modo da restituirgli la capacità di rispettare i ritmi circadiani e, con essi, ri-imparare ad assecondare le necessità nutrizionali mano a mano che muta, nella giornata, l’assetto ormonale.
Purtroppo non è possibile definire una sorta di regime alimentare standard valido per tutti i pazienti fibromialgici, ma le indicazioni sulle limitazioni sono in genere comuni. A proposito: il rispetto del metabolismo richiede anche l’abolizione dei tonici, di cui spesso ed erroneamente molti fibromialgici fanno uso nel tentativo di “darsi una carica”. Dunque caffè, cioccolata e tè nero sarebbero da evitare.
Posto che non possiamo indicare un regime alimentare universalmente valido, possiamo almeno dare alcuni suggerimenti di massima su che cosa si può mangiare?
Direi che il suggerimento migliore è quello di avere varietà alimentare, privilegiando il più possibile cibi freschi, per avere una maggiore ricchezza di vitamine e minerali.
Ci vogliono quindi le proteine, meglio se vegetali, i grassi (con un regolare consumo di olio di oliva a crudo e avendo cura di assumere anche acidi grassi essenziali tipo omega 3 e 6 nelle giuste proporzioni, attraverso pesce di acque fredde e frutta secca) e, per ciò che riguarda gli zuccheri, si devono scegliere carboidrati complessi, in modo da poter contare su una produzione costante di energia, senza sbalzi glicemici. Importante è anche l’idratazione: l’acqua è il solvente fondamentale per ogni processo biochimico che avviene nel corpo umano e dunque bere acqua, regolarmente, è indispensabile.
Come si pone a proposito degli integratori?
Vanno eventualmente prescritti caso per caso e non prima di avere fatto delle analisi opportune per evidenziare eventuali carenze. È possibile che, in caso di intestino infiammato, ci siano delle carenze date da malassorbimento che potrebbero richiedere un aiuto in forma di integrazione. Comunque sia mi preme sottolineare come la sostanza che probabilmente risulta essere più necessaria, per via di una generale carenza diffusa anche nella popolazione non fibromialgica, è quella di vitamina D (per avere una panoramica sulla vitamina D e il suo ruolo nell’organismo, clicca qui).
La vitamina D, infatti, che tutti conosciamo per la sua azione sulle ossa, è in realtà in grado di intervenire in oltre 2000 processi di attivazione dei geni e, dunque, una sua carenza può avere conseguenze metaboliche importanti. Che possono senz’altro peggiorare il quadro del paziente fibromialgico.
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