Salute
Il vaccino contro il Covid-19: quello che c’è da sapere
Il vaccino contro il Covid è sicuro?Come hanno fatto a produrre tanti vaccini anti covid diversi in così poco tempo?
Abbiamo sufficienti garanzie sulla sicurezza? Sono domande che ognuno di noi si pone, alla viglia di una delle più grandi “stagioni vaccinali” della storia. E a cui abbiamo cercato di dare un’autorevole risposta.

Il vaccino contro il Covid è sicuro?
Come hanno fatto a produrre tanti vaccini anti covid diversi in così poco tempo?
Abbiamo sufficienti garanzie sulla sicurezza? Sono domande che ognuno di noi si pone, alla viglia di una delle più grandi “stagioni vaccinali” della storia. E a cui abbiamo cercato di dare un’autorevole risposta.
Mentre ognuno di noi cerca affannosamente conforto nei dati per capire come evolve la seconda ondata pandemica, ecco che in questi giorni alcune aziende farmaceutiche hanno annunciato di essere pronte a iniziare la campagna di vaccinazione contro il Covid-19. Si tratta della notizia che tutti volevamo sentire ma che non ha mancato di suscitare qualche perplessità, soprattutto per la rapidità con cui si è giunti a questo straordinario risultato. Ecco allora che nella mente di molti si affaccia la domanda: si tratta di un prodotto sicuro? Avranno rispettato gli standard di sicurezza? Non sarà che in nome della fretta stanno mettendo in commercio un vaccino senza avere le necessarie garanzie?
Sono domande legittime, a cui cercheremo di dare una risposta con l’aiuto di un esperto: il professor Antonio Mastino, già professore ordinario di microbiologia presso l’Università di Messina e associato di ricerca presso l’Istituto di Farmacologia Traslazionale del CNR a Roma.
Professore, cominciamo dall’inizio: questi annunci sono “veritieri”? I vaccini ci sono realmente?
Gli annunci di alcune aziende ci dicono che è quasi pronto il loro dossier finale da consegnare alle autorità regolatorie per l’autorizzazione alla messa in commercio dei vaccini.
Ciò significa che sono state portate praticamente a termine le tre fasi di sperimentazione e che adesso siamo vicini all’atto finale. Considerando che le agenzie regolatorie avevano già dato il via libera in occasione degli step precedenti nell’iter della sperimentazione dei vaccini, tutto fa ritenere che le aziende che hanno dato l’annuncio siano molto sicure di avere svolto il lavoro a regola d’arte, che i risultati sono positivi e quindi, pur assumendosi un rischio di impresa, hanno già avviato la produzione su ampia scala. Ecco perché oltre a parlare di messa a punto del vaccino, si cominciano anche a ipotizzare date di inizio campagna vaccinale.
Come è stato possibile giungere a un risultato così importante nel giro di pochi mesi?
La velocità con cui è stato messo a punto il vaccino è risultato di tante variabili e di scelte che sono state fatte a monte, in seguito alla pubblicazione da parte degli scienziati cinesi della sequenza del genoma del virus lo scorso 10 gennaio.
Ciò ha consentito alle aziende che avevano già compiuto studi e sperimentazioni su vaccini a RNA messaggero (per approfondire leggi il nostro articolo Che cos’è un vaccino a RNA messaggero), o a base di vettori virali, di sfruttare un vantaggio di conoscenze, competenze e strategie. Non è un caso che, appena una settimana dopo la condivisione del patrimonio genetico virale, una società di biotecnologie, la Moderna, avesse già le basi per la messa a punto un prodotto papabile per diventare il vaccino vero e proprio.
Com’è possibile che già dopo una settimana esistesse una “ipotesi di vaccino”, per quanto da sperimentare?
Andiamo con ordine: in primo luogo le procedure per mettere a punto un vaccino di questo tipo sono già state ampiamente utilizzate per vaccini a uso veterinario e per la sperimentazione di vaccini per uso umano. Quindi è vero che si tratta del primo prodotto di questo genere realizzato per gli esseri umani potenzialmente vicino all’autorizzazione finale da parte delle agenzie regolatorie ma, nel tempo, erano già state acquisite competenze importanti sui procedimenti, con una raccolta significativa di dati utili.
Un secondo aspetto importante è il seguente: le aziende che per prime sono quasi giunte al traguardo avevano già lavorato su vaccini a uso umano basati sulla stessa metodologia.
Tra l’altro, nel caso di Moderna per esempio, tali progetti erano diretti proprio alla preparazione di un vaccino per la prevenzione della MERS, un’altra malattia causata da un coronavirus. Questi progetti erano stati portati avanti abbastanza a lungo da consentire di avere un razionale scientifico solido alle spalle e l’unico motivo per cui non sono giunti fino alla fase finale è perché, semplicemente, la MERS non si è poi evoluta in senso pandemico e pertanto è venuta meno la necessità di un ulteriore sviluppo.
Ma l’esperienza è tornata utile proprio perché i due virus sono simili e, pertanto, è stato possibile velocizzare il processo: era una strada già percorsa e si conoscevano in anticipo le problematiche che sarebbero potute emergere in corso d’opera. Ciò ha portato a cominciare la sperimentazione di fase uno (quella su un gruppo ristretto di volontari, mirata ad accertare prima di tutto tollerabilità e sicurezza del vaccino) già nel giro di due mesi circa. Va poi anche detto che i tempi di sviluppo per un vaccino sono più rapidi di quelli necessari per l’approvazione di un farmaco.
Come mai la sperimentazione per un vaccino richiede meno tempo di quella necessaria per l’approvazione di un farmaco?
Perché il vaccino viene inoculato una, al massimo due volte e poi inizia la fase di monitoraggio.
I farmaci, invece, vanno solitamente testati per cicli di somministrazioni e quindi la fase osservazionale inizia più tardi e dura più a lungo. Ma non è tutto: la fase due nella messa a punto di un vaccino si esaurisce sostanzialmente dopo avere verificato la produzione di una risposta immunitaria robusta e specifica e l’assenza di effetti indesiderati rilevanti. Mentre quella di un farmaco deve, oltre a confermare l’assenza di effetti indesiderati, comprovare la sua effettiva efficacia terapeutica paragonata a placebo mediante l’esame di una serie di valutazioni più complesse.
Infine dobbiamo valutare un’ultima componente: quella legata alle priorità delle stesse agenzie regolatorie. Dato che il Covid-19 è un’emergenza globale, i dossier conclusivi delle varie fasi di sperimentazione sono giunti sui tavoli delle commissioni in tempo quasi reale.
Le risposte che lei ci ha dato forniscono spiegazioni razionali, che lasciano quindi supporre come tale velocità non sia figlia della fretta quanto della capacità di far fruttare altre esperienze. Tuttavia resta la domanda: secondo lei i vaccini sono stati testati a sufficienza?
Le agenzie regolatorie non hanno manifestato, al momento, alcun tipo di lacuna nelle valutazioni delle documentazioni presentate e quindi, nel momento in cui le agenzie stesse dovessero autorizzare uno qualsiasi dei vaccini, mi sentirei garantito. Non ho motivo di avere dubbi su quelli che sono i criteri di valutazione e il percorso seguito fino a ora è assolutamente in linea con quello eseguito per ogni altra validazione.
Non dimentichiamo poi che gli stessi gruppi di ricerca delle aziende produttrici hanno pubblicato sulle riviste scientifiche dati relativi ai risultati degli studi preclinici, di fase uno, di fase due e anche una parte (in attesa di produrre altro) di quelli di fase tre, sottoponendosi così alla revisione della comunità scientifica internazionale. Si è trattato quindi di un percorso accelerato ma trasparente e la velocità si spiega con motivi razionali. Le motivazioni di tipo tecnico sono sufficienti a chiarire le differenze che si sono verificate in questo caso specifico.
Questo iter di approvazione rapida non va però a determinare un precedente che potrebbe creare pressione per le future approvazioni di farmaci e vaccini?
Potrebbe, ma non è necessariamente un precedente negativo. Mi spiego meglio: io mi occupo di biomedicina traslazionale. Si tratta di quella branca delle scienze biomediche che mira a ridurre i tempi di messa a punto e approvazione dei farmaci cercando di ottimizzare i passaggi di laboratorio. Per fare ciò ci rifacciamo a esperienze precedenti già approvate e a meccanismi sperimentati. Di conseguenza possiamo aiutare il processo di “drug discovery” e le agenzie regolatorie ad accelerare i tempi di autorizzazione, se possiamo contare su standard eseguiti in modo corretto. Ebbene, si tratta di ciò che è accaduto in questa situazione e che potrebbe diventare una nuova prassi operativa, in grado di rispondere più velocemente alle esigenze di salute per questa e altre patologie.
Salute
Buoni propositi 2021. Sfrutta l’effetto nuovo inizio. Le 3 regole per un reale cambiamento.

«Da gennaio cambio vita». È davvero possibile?
Scopri come far sì che i buoni propositi per il 2021 si trasformino in una trasformazione reale, per partire davvero con spirito nuovo.
Il passaggio dell’anno porta con sé la nozione di svolta. Immaginiamo i mesi a venire come tante pagine bianche, tutte opportunità da scrivere. È inevitabile e non si tratta solo di convenzione. In psicologia si chiama “effetto nuovo inizio”, è la spinta motivazionale al cambiamento che ci investe nei momenti di cesura e di passaggio, così universale e tangibile da essere sfruttata molto anche nei processi decisionali legati all’acquisto. Ecco anche perché nei primi giorni di gennaio fioriscono gli sconti e offerte imperdibili sugli abbonamenti annuali.
Il nuovo inizio induce effettivamente una sorta di reset mentale e attiva una spinta innovatrice, utile per riprogrammare mete e obiettivi. Si intraprendono diete ferree, ci si iscrive a corsi di formazione, si anticipa la sveglia per rendere la giornata più produttiva. Si parte alla carica, con entusiasmo e energie fresche e rinnovate. Allora perché la maggior parte delle grandi risoluzioni viene abbandonata nel giro di qualche settimana?
Siamo davvero pronti a ricominciare?
Attribuiamo a date precise il potere di scandire il fluire del tempo e di separare il passato dal presente e dal futuro. Queste cesure temporali ci danno anche la sensazione di delimitare varie fasi della vita e della nostra identità, separando ciò che stiamo stati da quel che siamo e che potremmo diventare. Si ha la sensazione che, da quel momento in poi, tutto potrà essere diverso. Si sono commessi degli errori? Può essere, ma questi non contano più, se ora c’è la possibilità di ricominciare da capo.
Non solo l’inizio dell’anno, ma anche un cambio di stagione, il primo del mese, il lunedì e perfino l’alba possono darci l’energia adatta per un cambiamento. Più questi riferimenti temporali sono riconosciuti a livello collettivo o significativi per l’individuo (per es. l’anniversario di un lutto o della fine di una relazione), maggiore è la loro presa su di noi. Quest’anno immaginiamo un desiderio collettivo di chiudere con il 2020 molto intenso e allora non sciupiamo l’occasione per realizzare un cambiamento che ci porti ad essere più felici.
Ecco le 3 regole per non perdere l’effetto del nuovo inizio.
No ai gesti impulsivi: serve strategia
L’effetto nuovo inizio, tuttavia, dopo un po’ sfuma. La spinta iniziale e il desiderio, da soli, non bastano. Ed ecco spiegato il fallimento di tanti progetti di inizio anno. Per concretizzarli, il segreto è far sì che mettano radici nella nostra motivazione e nella routine, altrimenti li accantoneremo senza neanche accorgercene.
Prima di iniziare, proviamo quindi a chiederci che significato ha per noi il raggiungimento di un obiettivo e perché lo riteniamo importante. Quali conseguenze potrebbe avere la sua realizzazione? Quali le implicazioni, positive o negative, per noi e per chi ci circonda? E soprattutto, siamo davvero disposti ad accogliere gli effetti di quel cambiamento?
Spostiamo poi la riflessione su un piano pratico. Quali sono gli step per raggiungere l’obiettivo? Come pensiamo di inserirlo, concretamente nella nostra vita? Che costi avrà in termini di tempo, impegno e denaro?
Scriviamo le risposte su un taccuino, registriamole in una nota vocale indirizzata a noi stessi oppure parliamone con un amico.
Questo ci aiuterà a introiettare l’idea, a renderla un po’ più nostra, ma anche a selezionare gli obiettivi che davvero fanno per noi, scremando ciò di cui non ci importa realmente e che finiremmo per lasciar perdere nel giro di poco. E, al contempo, a essere preparati agli ostacoli e alle difficoltà che, inevitabilmente, si incontreranno.
A piccoli step, verso la meta.
Invece di progettare una ristrutturazione drastica e completa dell’esistenza, che può rivelarsi irrealistica e difficilmente sostenibile, è utile focalizzarsi su un’area alla volta e procedere per piccoli step, suddividendo un obiettivo impegnativo in blocchi di sotto-obiettivi più facili da conseguire a breve termine.
Anziché prefiggersi di perdere 10 chili, cominciare con 2. Non imporsi un allenamento quotidiano: iniziare una volta a settimana.
Se l’obiettivo è troppo ambizioso e vago, con il passare dei giorni sarà sempre più difficile mantenere viva la motivazione necessaria a compiere i sacrifici che servono a portarlo avanti. Tenderemo a procrastinare, saremo presi dall’ansia e desisteremo più facilmente.
Obiettivi minori e sostenibili, invece, risultano più gratificanti, alimentano l’autostima e ci mantengono motivati. E sono anche più strategici: una volta raggiunti, prefiggersi un ulteriore passo in avanti nell’ambito di una routine già avviata (perdere altri 2 kg, allenarsi mezz’ora in più alla settimana, ecc.) costerà meno sforzi e ci avvicinerà alla meta finale.
Fare spazio al nuovo
Per favorire un nuovo inizio, è utile alleggerire la mente e la vita quotidiana da ciò che, con il tempo, è diventato zavorra. Passiamo in rassegna la casa, l’armadio, il computer, la casella delle mail e il cellulare. Eliminiamo gli oggetti, i vestiti, i documenti non più utili e attuali. Non stiamo solo riordinando, ma compiendo un’operazione di rinnovamento, per fare spazio a tutto ciò che potrà arricchirci nei mesi a venire. Facciamo spazio al nuovo anche nei comportamenti: individuiamo quei gesti, quelle azioni disfunzionali che ci portano ad ottenere inevitabilmente sempre gli stessi risultati che ci fanno soffrire. Anche in questo caso vale la regola del piccolo passo. Piccoli passi amorevoli per noi stessi. Non guardiamo la montagna che ci sembra di dover scalare per riuscire a risolvere i nostri problemi esistenziali; iniziamo con un piccolo passo, una piccola buona abitudine e una volta consolidata portiamo nel nostro quotidiano altre novità. Pensiamo ad aggiungere più che a sottrarre. Buone abitudini ridurranno di conseguenza quelle che non ci fanno bene.
Salute
La telemedicina: il paziente al centro della rivoluzione digitale
Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.

Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.
Quando parliamo di telemedicina, non ci riferiamo semplicemente ad una serie di visite attraverso lo strumento virtuale o a delle consulenze mediche da remoto, ma a progetti di vera e propria assistenza territoriale al paziente, per coniugare cura e domicilio e favorire il rapporto assistenziale ospedale-territorio-paziente.
I vantaggi dell’assistenza ai malati cronici e rari
Le patologie più complesse, croniche, sia rare che non, hanno un alto tasso di comorbilità e richiedono più specialisti che interagiscano con il paziente nonché fra loro, con un impegno notevole da parte del paziente stesso, così come dei caregivers che se ne prendono cura, per sostenere visite spesso anche lontano dal proprio domicilio, per i costi, e talvolta anche per integrare le varie consulenze ed informazioni ricevute.
I primi progetti ospedalieri di telemedicina, sono stati realizzati proprio per sopperire a tutte queste criticità, e nello stesso tempo per migliorare anche la tempestività dei ricoveri, soprattutto in situazioni di emergenza.
Da diversi anni è emersa la necessità di apportare un cambiamento nel supporto ai pazienti più a rischio, cercando di influenzarne positivamente la qualità della vita e la gestione della malattia, e la pandemia ha evidenziato quanta differenza possa fare l’ avvalersi delle tecnologie digitali, nel monitorare coloro che sono più a rischio.
L’uso di app per smartphone e per dispositivi mobili, attraverso le quali inserire i valori dei parametri da monitorare e comunicarli in tempo reale all’equipe di riferimento, programmi di teleconsulto, che consentono la condivisione e la valutazione in contemporanea della situazione clinica, da parte di più specialisti, programmi che consentono la valutazione di sindromi genetiche, sulla base di caratteristiche morfologiche, questi sono solo alcuni dei progetti e degli strumenti a cui si lavora da qualche anno.
Telemedicina e malattie cardiovascolari
I pazienti considerati a rischio di malattie cardiovascolari, ipertesi, così come diverse persone con un principio di sindrome metabolica, sono stati tra i primi ad usufruire di progetti pilota di telemedicina, con il controllo attivo da parte degli ambulatori di riferimento, soprattutto per la gestione della terapia e per valutare il rapporto aderenza terapeutica – benefici. Questi percorsi sono stati di grande utilità per migliorare anche la prevenzione, per comunicare con il paziente sui possibili dubbi, effetti collaterali, e sull’impatto dello stile di vita nell’acuirsi del rischio. La possibilità di monitorare la frequenza cardiaca attraverso delle app per dispositivi mobili è ormai una realtà, così come per la pressione arteriosa, il che consente a molti pazienti cardiopatici, ipertesi, e con fattori di rischio importanti (obesità, diabete, dislipidemie) di autogestirsi quotidianamente e nel contempo ricevere supporto dagli specialisti, ad esempio quando l’aderenza terapeutica non è costante ed è necessario intervenire.
La medicina digitale e il paziente al centro
Uno degli obiettivi che si pone la telemedicina, non è ridurre il rapporto medico paziente ad un monitor o ad un messaggio, ma al contrario è quello di mettere la persona al centro, il paziente al centro, ed intorno costruire una rete fatta di servizi, che non solo siano in grado di assisterlo nella malattia ma anche garantire quella qualità di vita, che spesso una patologia complessa fa perdere.
La teleassistenza vuol favorire sempre di più l’home care, perché il paziente possa spostarsi da casa solo quando necessario, evitando rischi che molte persone fragili corrono, nonché uno stress fisico e mentale non indifferente. Pensiamo ad esempio a persone molto anziane, ai soggetti immunodepressi, con patologia autoimmune, trapiantati d’organo, o a coloro che si sottopongono a terapie oncologiche, possono trovare un grande beneficio dalla teleassistenza, specie nel monitoraggio quotidiano, poiché nello stesso tempo il medico di riferimento può controllare qualsiasi cambiamento in tempo reale e comunicare con il paziente, che si sente costantemente seguito, anche quando non si reca di persona nella struttura. È importante sottolineare come la costruzione della rete di servizi di e-health ed in presenza possa comprendere anche tutta quella parte burocratica di piani terapeutici, richiesta di farmaci e di servizi assistenziali, che spesso diventa macchinosa e complicata.
Dalla neurologia al supporto psicologico
Uno dei campi in cui la telemedicina sta trovando applicazione, con successo, è la neurologia, e molto interessante è un articolo riportato dal British Medical Journal pubblicato su Practical Neurology, dove vengono tracciate le linee guida per i neurologi, su come gestire i pazienti in teleassistenza, e sull’importanza di fare in modo che il paziente o il familiare/caregiver sia dotato di un adeguato strumento digitale, con schermo e telecamera e di una connessione internet. Oltre all’anamnesi familiare e a tutta la parte legata alla storia del paziente, attraverso la televisita è possibile valutare eventuali difficoltà nel linguaggio, nel movimento e nella coordinazione ( si può chiedere di alzarsi e sedersi, camminare, fare movimenti a richiesta), e nell’attenzione. Tutto questo lavoro preliminare avvantaggia molto la futura diagnosi, con guadagno di tempo e per chi non ha la possibilità di recarsi facilmente ad una visita in presenza, non sostituendosi alla medicina ambulatoriale ed ospedaliera ma integrandosi con essa e rendendola fruibile a più persone possibili.
Le potenzialità della medicina digitale si prestano bene ai servizi di supporto psicologico, che sono sempre più richiesti, dagli adolescenti alle problematiche postpartum, alla consulenza familiare fino all’impatto delle altre malattie nella propria vita. Potrebbe sembrare un modo asettico per affrontare la psicoterapia, e invece ha molti risvolti positivi, soprattutto quando si ha difficoltà ad integrarla con altri impegni, per molti l’utilizzo di uno strumento virtuale può essere anche un modo per superare eventuali paure, imbarazzi nell’affrontare la richiesta di aiuto, e lì dove mancano, sul territorio, servizi ambulatoriali di supporto psicologico, questo può essere un sistema concreto per supportare più persone ed interagire con altri specialisti per costruire percorsi adeguati.
La medicina del presente e del futuro ha bisogno della tecnologia digitale, per offrire al paziente, al centro di tutto, i migliori percorsi di cura, capaci di offrire diagnosi rapide, terapie adeguate, qualità di vita e rapporto medico-paziente, al quale niente mai potrà sostituirsi.
Salute
Alimentazione e fibromialgia: ecco le regole d’oro
L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.

L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.
In attesa di trovare una terapia valida ed efficace in grado di aiutare tutti i pazienti che soffrono di fibromialgia, è importante che, chi ne soffre, riesca a mitigare i sintomi del disturbo in modo da migliorare la propria qualità della vita.
Un aspetto importante, non unico ma comunque centrale, è quello relativo all’alimentazione, poiché la letteratura scientifica sta evidenziando una correlazione stretta tra il consumo di alcune tipologie di alimenti e il peggioramento delle condizioni cliniche del paziente. Vale dunque la pena approfondire il discorso e lo possiamo fare con un esperto: si tratta del dottor Daniele Buttitta, medico e nutrizionista che ha svolto attività di consulenza al tavolo tecnico regionale (per la regione Sicilia) sul trattamento della fibromialgia.
Dottore, cominciamo subito con la domanda più importante: la modifica di alcune abitudini alimentari può essere di giovamento al paziente fibromialgico?
Entro una certa misura sì, e lo dico tanto in base alla la mia esperienza, quanto confortato dalla letteratura scientifica che si sta producendo in merito, da alcuni anni a questa parte.
Ciò detto dobbiamo sempre tenere conto del fatto che la fibromialgia è una patologia complessa e che richiede uno sforzo multidisciplinare, per offrire i risultati migliori.
I trattamenti monospecialistici non hanno dato, a oggi, risultati ottimali e pertanto preferirei che i pazienti che soffrono di questa patologia avessero ben presente che un approccio nutrizionale alla malattia deve essere considerato parte di un percorso, ma non certo tutto il tragitto.
Qual è l’importanza della corretta nutrizione, per un paziente affetto da fibromialgia?
La correzione di alcune abitudini e l’educazione a una nutrizione più adatta alle caratteristiche del fibromialgico ha dimostrato di poter facilitare il recupero di una buona qualità della vita.
Per prima cosa ritengo molto importante cercare di recuperare la regolarità intestinale, ripristinando quindi una corretta composizione della flora e migliorando l’efficienza delle mucose. Un intestino che funziona bene, infatti, consente di elaborare e assorbire meglio i nutrienti contenuti nel cibo, così da evitare carenze e diminuire i disturbi di tipo enterico che spesso affliggono i pazienti affetti da fibromialgia. In questo modo migliora la resistenza alla fatica, diminuisce la sensibilità al dolore, migliora la qualità del sonno e con esso anche la prontezza cognitiva.
Come si recupera una buona funzione intestinale?
Le ricerche indicano che alcuni alimenti peggiorano la funzione stessa.
Tra questi cito in primo luogo gli zuccheri semplici e le farine raffinate, che andrebbero eliminate totalmente. Dopodiché, almeno in una prima fase, io preferisco eliminare latte e latticini. Una terza categoria alimentare, che va eliminata dalla dieta del fibromialgico sono le solanacee e quindi i peperoni, i pomodori, le melanzane e le patate. Un discorso a parte va fatto per il mais.
Che discorso?
Anche se i pazienti fibromialgici non sono celiaci in senso stretto, si è notato che una riduzione del glutine, nella loro dieta, porta benefici.
Tuttavia, in tale sostituzione, si tende ad abusare di prodotti derivati dal mais che, nonostante non contengano glutine, non sono comunque ideali per il paziente fibromialgico (probabilmente per la sensibilità alle fumonisine, funghi microscopici che possono produrre specifiche tossine in grado di esacerbare i sintomi della FM.) Pertanto io suggerisco l’eliminazione del mais e dei suoi derivati, e incoraggio invece il consumo di farine alternative quali grano saraceno, farine di riso, miglio, quinoa eccetera.
Quali sono gli effetti di queste limitazioni, per i pazienti fibromialgici?
L’idea è che servano a preparare il terreno biologico, in modo da rendere più efficaci le terapie proposte da altri specialisti.
L’aspetto della preparazione del terreno biologico è importante, poiché dobbiamo pensare che spesso questi pazienti arrivano a una diagnosi dopo molti anni di nomadismo medico e dopo avere assunto farmaci e integratori di ogni genere. Si rende allora necessario, prima ancora di ogni altro intervento, correggere il metabolismo del paziente, in modo da restituirgli la capacità di rispettare i ritmi circadiani e, con essi, ri-imparare ad assecondare le necessità nutrizionali mano a mano che muta, nella giornata, l’assetto ormonale.
Purtroppo non è possibile definire una sorta di regime alimentare standard valido per tutti i pazienti fibromialgici, ma le indicazioni sulle limitazioni sono in genere comuni. A proposito: il rispetto del metabolismo richiede anche l’abolizione dei tonici, di cui spesso ed erroneamente molti fibromialgici fanno uso nel tentativo di “darsi una carica”. Dunque caffè, cioccolata e tè nero sarebbero da evitare.
Posto che non possiamo indicare un regime alimentare universalmente valido, possiamo almeno dare alcuni suggerimenti di massima su che cosa si può mangiare?
Direi che il suggerimento migliore è quello di avere varietà alimentare, privilegiando il più possibile cibi freschi, per avere una maggiore ricchezza di vitamine e minerali.
Ci vogliono quindi le proteine, meglio se vegetali, i grassi (con un regolare consumo di olio di oliva a crudo e avendo cura di assumere anche acidi grassi essenziali tipo omega 3 e 6 nelle giuste proporzioni, attraverso pesce di acque fredde e frutta secca) e, per ciò che riguarda gli zuccheri, si devono scegliere carboidrati complessi, in modo da poter contare su una produzione costante di energia, senza sbalzi glicemici. Importante è anche l’idratazione: l’acqua è il solvente fondamentale per ogni processo biochimico che avviene nel corpo umano e dunque bere acqua, regolarmente, è indispensabile.
Come si pone a proposito degli integratori?
Vanno eventualmente prescritti caso per caso e non prima di avere fatto delle analisi opportune per evidenziare eventuali carenze. È possibile che, in caso di intestino infiammato, ci siano delle carenze date da malassorbimento che potrebbero richiedere un aiuto in forma di integrazione. Comunque sia mi preme sottolineare come la sostanza che probabilmente risulta essere più necessaria, per via di una generale carenza diffusa anche nella popolazione non fibromialgica, è quella di vitamina D (per avere una panoramica sulla vitamina D e il suo ruolo nell’organismo, clicca qui).
La vitamina D, infatti, che tutti conosciamo per la sua azione sulle ossa, è in realtà in grado di intervenire in oltre 2000 processi di attivazione dei geni e, dunque, una sua carenza può avere conseguenze metaboliche importanti. Che possono senz’altro peggiorare il quadro del paziente fibromialgico.
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