Salute
Fibromialgia: presto il primo test per valutare il dolore
Messo a punto da William Raffaeli, esperto internazionale della terapia del dolore e presidente della Fondazione ISAL, si tratta del primo test per la misurazione del dolore cronico.

Messo a punto da William Raffaeli, esperto internazionale della terapia del dolore e presidente della Fondazione ISAL, si tratta del primo test per la misurazione del dolore cronico.
Un passo in avanti importantissimo per dimostrare che i fibromialgici non sono “malati immaginari”.
Forse siamo alla vigilia di una svolta epocale per ciò che riguarda la diagnosi e la valutazione della fibromialgia: ci stiamo infatti avvicinando a capire come è possibile misurare in termini oggettivi il dolore cronico dei pazienti con Fibromialgia.
Sarà possibile dimostrare, dati alla mano, che la sofferenza di questi pazienti non solo è reale, ma si può esprimere in termini quantitativi, indispensabili per determinare il tipo di invalidità che la patologia può dare in chi ne soffre. Non dobbiamo infatti dimenticare che, ancora oggi, la fibromialgia è guardata con sospetto da chi non la conosce e molti ritengono che si tratti di un disturbo che attiene più alla sfera psicologica che a quella fisica.
Chi ha trovato il modo di effettuare questa “misurazione” è uno dei più grandi esperti di terapie del dolore che ci siano nel nostro Paese: si tratta di William Raffaeli, presidente della Fondazione ISAL, l’Istituto di Formazione e Ricerca in Scienza Algologiche.
Professore, ci spiega in che cosa consiste la vostra scoperta?
La nostra ricerca si basa sul fatto che le cellule linfocitarie e quelle natural killer, elementi essenziali per la risposta di difesa immunitaria, possiedono sulla loro membrana dei recettori per le sostanze endogene a carattere analgesico come gli oppioidi e i cannabinoidi. In questo modo noi possiamo valutare, attraverso lo studio della espressione di tali recettori, se il corpo è alle prese con stimoli dolorosi oggettivi.
Diciamo che, fino a oggi, il dolore è sempre stato considerato come un fatto soggettivo e si è misurato con questionari o interviste ai pazienti; ecco allora che riuscire a definire un criterio per la sua misurazione può finalmente aiutarci a capire quale sia l’intensità reale e biologica della sofferenza percepita.
Insomma, possiamo dire in termini semplici che finalmente esiste il modo di misurare il dolore?
Semplificando, questo è lo scopo della nostra ricerca, che noi riteniamo essere molto vicino, anche se dobbiamo procedere a una validazione ulteriore. Se il test si dimostrasse affidabile possiamo dire di essere vicini a un cambio di paradigma: così come siamo abituati a stabilire che, attraverso la misurazione della glicemia, possiamo diagnosticare il diabete o che con una radiografia possiamo dimostrare strumentalmente la presenza di una frattura, ecco che potremmo a breve avere un test del sangue grazie al quale potremmo essere presto in grado di effettuare una valutazione affidabile del dolore in atto nei pazienti .
Lei ha detto: “potremmo essere presto in grado”. Quanto presto?
Io credo nel giro di sei mesi circa, anche se molto oggi dipende dalla situazione fluida che stiamo vivendo a causa del Covid, che sta ovviamente rallentando molti progetti di ricerca. Penso che con sei mesi di sperimentazione, da effettuare appena possibile, potremmo mettere a punto un test affidabile ed esportabile nei laboratori di analisi all’interno degli ospedali.
Questo test consentirebbe quindi per la prima volta di dimostrare che il dolore e il disagio lamentato dai pazienti fibromialgici è reale non è frutto di un costrutto psichico.
Quali potrebbero essere le ricadute pratiche di tale dimostrazione?
Una prima conseguenza potrebbe essere quella di poter vedere riconosciuta la loro patologia come malattia più o meno invalidante. E favorire così il processo relativo al riconoscimento per così dire “istituzionale”, agevolando quindi il ricorso alle terapie antalgiche da una parte e avviando tutte le procedure che possono consentire nel tempo al riconoscimento dell’invalidità che nei casi più gravi questa malattia determina.
In secondo luogo il monitoraggio degli indicatori potrebbe darci una conferma strumentale della bontà delle terapie antalgiche, supportando così la testimonianza dei pazienti. Peraltro, oltre ad aiutarci a valutare quale sia l’analgesico più efficace per il singolo caso, un esame di questo tipo ci consentirebbe di fare aggiustamenti di terapia, in modo da capire quali siano i dosaggi giusti per il singolo paziente.
A proposito del controllo del dolore: qual è la molecola che oggi ha dimostrato di aiutare maggiormente i pazienti affetti da fibromialgia?
Questo è un problema per noi interessante poiché ci sono pazienti che rispondono bene al paracetamolo, altri che necessitano di oppioidi, altri di cannabinoidi. Ciò ci lascia supporre che dietro queste differenze di risposta, ci possano essere cause diverse alla base del dolore percepito. È come se al posto della fibromialgia in sé e per sé, avessimo aperto un capitolo che riguarda le fibromialgie come famiglia di disturbi simili tra loro, ma con origine leggermente diversa e quindi anche diversi trattamenti. Da questo punto di vista siamo all’inizio del cammino.
Quindi non possiamo dare un suggerimento valido per tutti i pazienti?
Non ancora. La sola raccomandazione che posso offrire è quella di sapersi ascoltare.
Spesso questi pazienti, una volta ricevuta la diagnosi, diventano dei buoni ascoltatori di se stessi e sono in grado attraverso processi di apprendimento “sul campo” di capire che cosa funziona per loro e che cosa, invece, può peggiorare i sintomi. E così ci aiutano, grazie all’esperienza, a elaborare scenari e indirizzare anche le nostre ricerche.
Vuoi sapere di più sul dolore cronico e come trattarlo? Ne abbiamo già parlato in questo articolo sulla fibromialgia.
Sei alla ricerca di una struttura dedicata al paziente fibromialgico? Qui abbiamo creato una lista di alcune strutture disponibili. Se ne conosci altre e desideri segnalarle, scrivici nei commenti.
Salute
Buoni propositi 2021. Sfrutta l’effetto nuovo inizio. Le 3 regole per un reale cambiamento.

«Da gennaio cambio vita». È davvero possibile?
Scopri come far sì che i buoni propositi per il 2021 si trasformino in una trasformazione reale, per partire davvero con spirito nuovo.
Il passaggio dell’anno porta con sé la nozione di svolta. Immaginiamo i mesi a venire come tante pagine bianche, tutte opportunità da scrivere. È inevitabile e non si tratta solo di convenzione. In psicologia si chiama “effetto nuovo inizio”, è la spinta motivazionale al cambiamento che ci investe nei momenti di cesura e di passaggio, così universale e tangibile da essere sfruttata molto anche nei processi decisionali legati all’acquisto. Ecco anche perché nei primi giorni di gennaio fioriscono gli sconti e offerte imperdibili sugli abbonamenti annuali.
Il nuovo inizio induce effettivamente una sorta di reset mentale e attiva una spinta innovatrice, utile per riprogrammare mete e obiettivi. Si intraprendono diete ferree, ci si iscrive a corsi di formazione, si anticipa la sveglia per rendere la giornata più produttiva. Si parte alla carica, con entusiasmo e energie fresche e rinnovate. Allora perché la maggior parte delle grandi risoluzioni viene abbandonata nel giro di qualche settimana?
Siamo davvero pronti a ricominciare?
Attribuiamo a date precise il potere di scandire il fluire del tempo e di separare il passato dal presente e dal futuro. Queste cesure temporali ci danno anche la sensazione di delimitare varie fasi della vita e della nostra identità, separando ciò che stiamo stati da quel che siamo e che potremmo diventare. Si ha la sensazione che, da quel momento in poi, tutto potrà essere diverso. Si sono commessi degli errori? Può essere, ma questi non contano più, se ora c’è la possibilità di ricominciare da capo.
Non solo l’inizio dell’anno, ma anche un cambio di stagione, il primo del mese, il lunedì e perfino l’alba possono darci l’energia adatta per un cambiamento. Più questi riferimenti temporali sono riconosciuti a livello collettivo o significativi per l’individuo (per es. l’anniversario di un lutto o della fine di una relazione), maggiore è la loro presa su di noi. Quest’anno immaginiamo un desiderio collettivo di chiudere con il 2020 molto intenso e allora non sciupiamo l’occasione per realizzare un cambiamento che ci porti ad essere più felici.
Ecco le 3 regole per non perdere l’effetto del nuovo inizio.
No ai gesti impulsivi: serve strategia
L’effetto nuovo inizio, tuttavia, dopo un po’ sfuma. La spinta iniziale e il desiderio, da soli, non bastano. Ed ecco spiegato il fallimento di tanti progetti di inizio anno. Per concretizzarli, il segreto è far sì che mettano radici nella nostra motivazione e nella routine, altrimenti li accantoneremo senza neanche accorgercene.
Prima di iniziare, proviamo quindi a chiederci che significato ha per noi il raggiungimento di un obiettivo e perché lo riteniamo importante. Quali conseguenze potrebbe avere la sua realizzazione? Quali le implicazioni, positive o negative, per noi e per chi ci circonda? E soprattutto, siamo davvero disposti ad accogliere gli effetti di quel cambiamento?
Spostiamo poi la riflessione su un piano pratico. Quali sono gli step per raggiungere l’obiettivo? Come pensiamo di inserirlo, concretamente nella nostra vita? Che costi avrà in termini di tempo, impegno e denaro?
Scriviamo le risposte su un taccuino, registriamole in una nota vocale indirizzata a noi stessi oppure parliamone con un amico.
Questo ci aiuterà a introiettare l’idea, a renderla un po’ più nostra, ma anche a selezionare gli obiettivi che davvero fanno per noi, scremando ciò di cui non ci importa realmente e che finiremmo per lasciar perdere nel giro di poco. E, al contempo, a essere preparati agli ostacoli e alle difficoltà che, inevitabilmente, si incontreranno.
A piccoli step, verso la meta.
Invece di progettare una ristrutturazione drastica e completa dell’esistenza, che può rivelarsi irrealistica e difficilmente sostenibile, è utile focalizzarsi su un’area alla volta e procedere per piccoli step, suddividendo un obiettivo impegnativo in blocchi di sotto-obiettivi più facili da conseguire a breve termine.
Anziché prefiggersi di perdere 10 chili, cominciare con 2. Non imporsi un allenamento quotidiano: iniziare una volta a settimana.
Se l’obiettivo è troppo ambizioso e vago, con il passare dei giorni sarà sempre più difficile mantenere viva la motivazione necessaria a compiere i sacrifici che servono a portarlo avanti. Tenderemo a procrastinare, saremo presi dall’ansia e desisteremo più facilmente.
Obiettivi minori e sostenibili, invece, risultano più gratificanti, alimentano l’autostima e ci mantengono motivati. E sono anche più strategici: una volta raggiunti, prefiggersi un ulteriore passo in avanti nell’ambito di una routine già avviata (perdere altri 2 kg, allenarsi mezz’ora in più alla settimana, ecc.) costerà meno sforzi e ci avvicinerà alla meta finale.
Fare spazio al nuovo
Per favorire un nuovo inizio, è utile alleggerire la mente e la vita quotidiana da ciò che, con il tempo, è diventato zavorra. Passiamo in rassegna la casa, l’armadio, il computer, la casella delle mail e il cellulare. Eliminiamo gli oggetti, i vestiti, i documenti non più utili e attuali. Non stiamo solo riordinando, ma compiendo un’operazione di rinnovamento, per fare spazio a tutto ciò che potrà arricchirci nei mesi a venire. Facciamo spazio al nuovo anche nei comportamenti: individuiamo quei gesti, quelle azioni disfunzionali che ci portano ad ottenere inevitabilmente sempre gli stessi risultati che ci fanno soffrire. Anche in questo caso vale la regola del piccolo passo. Piccoli passi amorevoli per noi stessi. Non guardiamo la montagna che ci sembra di dover scalare per riuscire a risolvere i nostri problemi esistenziali; iniziamo con un piccolo passo, una piccola buona abitudine e una volta consolidata portiamo nel nostro quotidiano altre novità. Pensiamo ad aggiungere più che a sottrarre. Buone abitudini ridurranno di conseguenza quelle che non ci fanno bene.
Salute
La telemedicina: il paziente al centro della rivoluzione digitale
Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.

Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.
Quando parliamo di telemedicina, non ci riferiamo semplicemente ad una serie di visite attraverso lo strumento virtuale o a delle consulenze mediche da remoto, ma a progetti di vera e propria assistenza territoriale al paziente, per coniugare cura e domicilio e favorire il rapporto assistenziale ospedale-territorio-paziente.
I vantaggi dell’assistenza ai malati cronici e rari
Le patologie più complesse, croniche, sia rare che non, hanno un alto tasso di comorbilità e richiedono più specialisti che interagiscano con il paziente nonché fra loro, con un impegno notevole da parte del paziente stesso, così come dei caregivers che se ne prendono cura, per sostenere visite spesso anche lontano dal proprio domicilio, per i costi, e talvolta anche per integrare le varie consulenze ed informazioni ricevute.
I primi progetti ospedalieri di telemedicina, sono stati realizzati proprio per sopperire a tutte queste criticità, e nello stesso tempo per migliorare anche la tempestività dei ricoveri, soprattutto in situazioni di emergenza.
Da diversi anni è emersa la necessità di apportare un cambiamento nel supporto ai pazienti più a rischio, cercando di influenzarne positivamente la qualità della vita e la gestione della malattia, e la pandemia ha evidenziato quanta differenza possa fare l’ avvalersi delle tecnologie digitali, nel monitorare coloro che sono più a rischio.
L’uso di app per smartphone e per dispositivi mobili, attraverso le quali inserire i valori dei parametri da monitorare e comunicarli in tempo reale all’equipe di riferimento, programmi di teleconsulto, che consentono la condivisione e la valutazione in contemporanea della situazione clinica, da parte di più specialisti, programmi che consentono la valutazione di sindromi genetiche, sulla base di caratteristiche morfologiche, questi sono solo alcuni dei progetti e degli strumenti a cui si lavora da qualche anno.
Telemedicina e malattie cardiovascolari
I pazienti considerati a rischio di malattie cardiovascolari, ipertesi, così come diverse persone con un principio di sindrome metabolica, sono stati tra i primi ad usufruire di progetti pilota di telemedicina, con il controllo attivo da parte degli ambulatori di riferimento, soprattutto per la gestione della terapia e per valutare il rapporto aderenza terapeutica – benefici. Questi percorsi sono stati di grande utilità per migliorare anche la prevenzione, per comunicare con il paziente sui possibili dubbi, effetti collaterali, e sull’impatto dello stile di vita nell’acuirsi del rischio. La possibilità di monitorare la frequenza cardiaca attraverso delle app per dispositivi mobili è ormai una realtà, così come per la pressione arteriosa, il che consente a molti pazienti cardiopatici, ipertesi, e con fattori di rischio importanti (obesità, diabete, dislipidemie) di autogestirsi quotidianamente e nel contempo ricevere supporto dagli specialisti, ad esempio quando l’aderenza terapeutica non è costante ed è necessario intervenire.
La medicina digitale e il paziente al centro
Uno degli obiettivi che si pone la telemedicina, non è ridurre il rapporto medico paziente ad un monitor o ad un messaggio, ma al contrario è quello di mettere la persona al centro, il paziente al centro, ed intorno costruire una rete fatta di servizi, che non solo siano in grado di assisterlo nella malattia ma anche garantire quella qualità di vita, che spesso una patologia complessa fa perdere.
La teleassistenza vuol favorire sempre di più l’home care, perché il paziente possa spostarsi da casa solo quando necessario, evitando rischi che molte persone fragili corrono, nonché uno stress fisico e mentale non indifferente. Pensiamo ad esempio a persone molto anziane, ai soggetti immunodepressi, con patologia autoimmune, trapiantati d’organo, o a coloro che si sottopongono a terapie oncologiche, possono trovare un grande beneficio dalla teleassistenza, specie nel monitoraggio quotidiano, poiché nello stesso tempo il medico di riferimento può controllare qualsiasi cambiamento in tempo reale e comunicare con il paziente, che si sente costantemente seguito, anche quando non si reca di persona nella struttura. È importante sottolineare come la costruzione della rete di servizi di e-health ed in presenza possa comprendere anche tutta quella parte burocratica di piani terapeutici, richiesta di farmaci e di servizi assistenziali, che spesso diventa macchinosa e complicata.
Dalla neurologia al supporto psicologico
Uno dei campi in cui la telemedicina sta trovando applicazione, con successo, è la neurologia, e molto interessante è un articolo riportato dal British Medical Journal pubblicato su Practical Neurology, dove vengono tracciate le linee guida per i neurologi, su come gestire i pazienti in teleassistenza, e sull’importanza di fare in modo che il paziente o il familiare/caregiver sia dotato di un adeguato strumento digitale, con schermo e telecamera e di una connessione internet. Oltre all’anamnesi familiare e a tutta la parte legata alla storia del paziente, attraverso la televisita è possibile valutare eventuali difficoltà nel linguaggio, nel movimento e nella coordinazione ( si può chiedere di alzarsi e sedersi, camminare, fare movimenti a richiesta), e nell’attenzione. Tutto questo lavoro preliminare avvantaggia molto la futura diagnosi, con guadagno di tempo e per chi non ha la possibilità di recarsi facilmente ad una visita in presenza, non sostituendosi alla medicina ambulatoriale ed ospedaliera ma integrandosi con essa e rendendola fruibile a più persone possibili.
Le potenzialità della medicina digitale si prestano bene ai servizi di supporto psicologico, che sono sempre più richiesti, dagli adolescenti alle problematiche postpartum, alla consulenza familiare fino all’impatto delle altre malattie nella propria vita. Potrebbe sembrare un modo asettico per affrontare la psicoterapia, e invece ha molti risvolti positivi, soprattutto quando si ha difficoltà ad integrarla con altri impegni, per molti l’utilizzo di uno strumento virtuale può essere anche un modo per superare eventuali paure, imbarazzi nell’affrontare la richiesta di aiuto, e lì dove mancano, sul territorio, servizi ambulatoriali di supporto psicologico, questo può essere un sistema concreto per supportare più persone ed interagire con altri specialisti per costruire percorsi adeguati.
La medicina del presente e del futuro ha bisogno della tecnologia digitale, per offrire al paziente, al centro di tutto, i migliori percorsi di cura, capaci di offrire diagnosi rapide, terapie adeguate, qualità di vita e rapporto medico-paziente, al quale niente mai potrà sostituirsi.
Salute
Alimentazione e fibromialgia: ecco le regole d’oro
L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.

L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.
In attesa di trovare una terapia valida ed efficace in grado di aiutare tutti i pazienti che soffrono di fibromialgia, è importante che, chi ne soffre, riesca a mitigare i sintomi del disturbo in modo da migliorare la propria qualità della vita.
Un aspetto importante, non unico ma comunque centrale, è quello relativo all’alimentazione, poiché la letteratura scientifica sta evidenziando una correlazione stretta tra il consumo di alcune tipologie di alimenti e il peggioramento delle condizioni cliniche del paziente. Vale dunque la pena approfondire il discorso e lo possiamo fare con un esperto: si tratta del dottor Daniele Buttitta, medico e nutrizionista che ha svolto attività di consulenza al tavolo tecnico regionale (per la regione Sicilia) sul trattamento della fibromialgia.
Dottore, cominciamo subito con la domanda più importante: la modifica di alcune abitudini alimentari può essere di giovamento al paziente fibromialgico?
Entro una certa misura sì, e lo dico tanto in base alla la mia esperienza, quanto confortato dalla letteratura scientifica che si sta producendo in merito, da alcuni anni a questa parte.
Ciò detto dobbiamo sempre tenere conto del fatto che la fibromialgia è una patologia complessa e che richiede uno sforzo multidisciplinare, per offrire i risultati migliori.
I trattamenti monospecialistici non hanno dato, a oggi, risultati ottimali e pertanto preferirei che i pazienti che soffrono di questa patologia avessero ben presente che un approccio nutrizionale alla malattia deve essere considerato parte di un percorso, ma non certo tutto il tragitto.
Qual è l’importanza della corretta nutrizione, per un paziente affetto da fibromialgia?
La correzione di alcune abitudini e l’educazione a una nutrizione più adatta alle caratteristiche del fibromialgico ha dimostrato di poter facilitare il recupero di una buona qualità della vita.
Per prima cosa ritengo molto importante cercare di recuperare la regolarità intestinale, ripristinando quindi una corretta composizione della flora e migliorando l’efficienza delle mucose. Un intestino che funziona bene, infatti, consente di elaborare e assorbire meglio i nutrienti contenuti nel cibo, così da evitare carenze e diminuire i disturbi di tipo enterico che spesso affliggono i pazienti affetti da fibromialgia. In questo modo migliora la resistenza alla fatica, diminuisce la sensibilità al dolore, migliora la qualità del sonno e con esso anche la prontezza cognitiva.
Come si recupera una buona funzione intestinale?
Le ricerche indicano che alcuni alimenti peggiorano la funzione stessa.
Tra questi cito in primo luogo gli zuccheri semplici e le farine raffinate, che andrebbero eliminate totalmente. Dopodiché, almeno in una prima fase, io preferisco eliminare latte e latticini. Una terza categoria alimentare, che va eliminata dalla dieta del fibromialgico sono le solanacee e quindi i peperoni, i pomodori, le melanzane e le patate. Un discorso a parte va fatto per il mais.
Che discorso?
Anche se i pazienti fibromialgici non sono celiaci in senso stretto, si è notato che una riduzione del glutine, nella loro dieta, porta benefici.
Tuttavia, in tale sostituzione, si tende ad abusare di prodotti derivati dal mais che, nonostante non contengano glutine, non sono comunque ideali per il paziente fibromialgico (probabilmente per la sensibilità alle fumonisine, funghi microscopici che possono produrre specifiche tossine in grado di esacerbare i sintomi della FM.) Pertanto io suggerisco l’eliminazione del mais e dei suoi derivati, e incoraggio invece il consumo di farine alternative quali grano saraceno, farine di riso, miglio, quinoa eccetera.
Quali sono gli effetti di queste limitazioni, per i pazienti fibromialgici?
L’idea è che servano a preparare il terreno biologico, in modo da rendere più efficaci le terapie proposte da altri specialisti.
L’aspetto della preparazione del terreno biologico è importante, poiché dobbiamo pensare che spesso questi pazienti arrivano a una diagnosi dopo molti anni di nomadismo medico e dopo avere assunto farmaci e integratori di ogni genere. Si rende allora necessario, prima ancora di ogni altro intervento, correggere il metabolismo del paziente, in modo da restituirgli la capacità di rispettare i ritmi circadiani e, con essi, ri-imparare ad assecondare le necessità nutrizionali mano a mano che muta, nella giornata, l’assetto ormonale.
Purtroppo non è possibile definire una sorta di regime alimentare standard valido per tutti i pazienti fibromialgici, ma le indicazioni sulle limitazioni sono in genere comuni. A proposito: il rispetto del metabolismo richiede anche l’abolizione dei tonici, di cui spesso ed erroneamente molti fibromialgici fanno uso nel tentativo di “darsi una carica”. Dunque caffè, cioccolata e tè nero sarebbero da evitare.
Posto che non possiamo indicare un regime alimentare universalmente valido, possiamo almeno dare alcuni suggerimenti di massima su che cosa si può mangiare?
Direi che il suggerimento migliore è quello di avere varietà alimentare, privilegiando il più possibile cibi freschi, per avere una maggiore ricchezza di vitamine e minerali.
Ci vogliono quindi le proteine, meglio se vegetali, i grassi (con un regolare consumo di olio di oliva a crudo e avendo cura di assumere anche acidi grassi essenziali tipo omega 3 e 6 nelle giuste proporzioni, attraverso pesce di acque fredde e frutta secca) e, per ciò che riguarda gli zuccheri, si devono scegliere carboidrati complessi, in modo da poter contare su una produzione costante di energia, senza sbalzi glicemici. Importante è anche l’idratazione: l’acqua è il solvente fondamentale per ogni processo biochimico che avviene nel corpo umano e dunque bere acqua, regolarmente, è indispensabile.
Come si pone a proposito degli integratori?
Vanno eventualmente prescritti caso per caso e non prima di avere fatto delle analisi opportune per evidenziare eventuali carenze. È possibile che, in caso di intestino infiammato, ci siano delle carenze date da malassorbimento che potrebbero richiedere un aiuto in forma di integrazione. Comunque sia mi preme sottolineare come la sostanza che probabilmente risulta essere più necessaria, per via di una generale carenza diffusa anche nella popolazione non fibromialgica, è quella di vitamina D (per avere una panoramica sulla vitamina D e il suo ruolo nell’organismo, clicca qui).
La vitamina D, infatti, che tutti conosciamo per la sua azione sulle ossa, è in realtà in grado di intervenire in oltre 2000 processi di attivazione dei geni e, dunque, una sua carenza può avere conseguenze metaboliche importanti. Che possono senz’altro peggiorare il quadro del paziente fibromialgico.
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