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Salute

Cosa succede alla donna dopo il parto?

Durante la gravidanza, il corpo della donna va incontro a profondi cambiamenti che coinvolgono tutti i suoi organi ed apparati che, nel corso dei 280 giorni di gestazione, garantiscono la crescita del bambino e il benessere della mamma. E’ proprio tutto l’assetto ormonale della donna che si modifica! Subito dopo il parto inizia il percorso di ripristino che permetterà alla donna di ristabilire la fisiologia di tutti i suoi sistemi. […]

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cosa succede dopo il parto

Durante la gravidanza, il corpo della donna va incontro a profondi cambiamenti che coinvolgono tutti i suoi organi ed apparati che, nel corso dei 280 giorni di gestazione, garantiscono la crescita del bambino e il benessere della mamma. E’ proprio tutto l’assetto ormonale della donna che si modifica! Subito dopo il parto inizia il percorso di ripristino che permetterà alla donna di ristabilire la fisiologia di tutti i suoi sistemi.

IL periodo durante il quale l’organismo femminile recupera la sua normalità si chiama puerperio, ha inizio dopo il parto e ha una durata variabile, inizia a circa 2 ore dal parto e dura fino alla ricomparsa del ciclo mestruale mensile.

Comprendere quali siano le principali modifiche ormonali che caratterizzano il periodo dopo il parto è cruciale per le donne, così da accogliere questo momento nella sua dinamica, senza giudicarsi o pretendere di voler essere subito “come prima”. Sarà importante anche per i papà, così sapranno ben comprendere il percorso che sta vivendo la propria compagna.

 



Cosa succede dunque dopo il parto nel corpo di una donna? Di quali ormoni stiamo parlando?

Estrogeni e Progesterone – Estrogeni e progesterone sono gli ormoni cardine da cui dipendono le maggiori modificazioni che hanno luogo durante la gravidanza. I loro livelli infatti si mantengono elevati durante la gestazione, per poi crollare immediatamente dopo l’espulsione della placenta.

Questo brusco abbassamento determina l’avvio del delicato processo di recupero dell’assetto genitale materno: l’utero si contrae riacquistando via via le sue dimensioni originarie; in genere ciò richiede diverse settimane e dipende dall’elasticità del tessuto.

Dal calo di estrogeni e progesterone dipende anche il ripristino della normale funzionalità del sistema cardiovascolare in termini di riduzione della gittata cardiaca, della frequenza cardiaca e del volume di plasma circolante. Dal calo di estrogeni e progesterone dipende anche la perdita progressiva dei chili accumulati durante la gravidanza.

Può accadere che questo processo comporti anche un calo del tono dell’umore. Studi scientifici, condotti con lo scopo di definirne la causa, hanno associato questo fenomeno al fatto che una riduzione dei livelli circolanti di estradiolo è in grado di determinare un minor rilascio di serotonina a livello del sistema nervoso centrale. La serotonina, in quanto ormone del benessere e del buon umore, se presente in quantità ridotte può causare la comparsa di stati d’ansia, malessere generale o senso di tristezza.

 

Glucocorticoidi – I livelli plasmatici di glucocorticoidi – cortisolo e corticosterone principalmente – dopo il picco ematico di concentrazione raggiunto in corrispondenza del parto, crollano immediatamente alla fine del parto. A questo fa seguito una graduale normalizzazione della funzionalità del sistema immunitario: temporaneamente e parzialmente “silenziato” per consentire all’organismo materno di tollerare un altro organismo, ora riacquista la sua piena funzionalità. Il calo dei glucocorticoidi partecipa anche al ripristino del sistema cardiovascolare e della normalizzazione del metabolismo, a cui consegue la perdita di peso.

Tuttavia in alcune donne i livelli di cortisolo si mantengono elevati anche durante il puerperio potendo provocare, tra gli altri sintomi, anche insonnia, ansia e depressione, effetti che incidono negativamente sulle cure parentali della madre nei confronti del neonato.

 



Prolattina – E’ l’ormone che stimola la sintesi del latte agendo direttamente sulla mammella.          La prolattina viene prodotta dall’ipofisi e i suoi livelli aumentano in maniera progressiva dopo l’espulsione della placenta, si mantengono elevati per qualche settimana durante il puerperio, incrementando ulteriormente in corrispondenza delle poppate, dopodiché declinano lentamente nei mesi successivi.

Da questo momento in poi la produzione della prolattina viene garantita esclusivamente dal riflesso della suzione: il bimbo si attacca al seno, la suzione del capezzolo evoca un riflesso nervoso che favorisce il rilascio di prolattina da parte dell’ipofisi al fine di garantire la produzione di latte; al termine della poppata i livelli di prolattina calano nuovamente e si normalizzano.

Questi picchi ormonali indotti dal riflesso della suzione tendono a ridursi man mano che ci si allontana dalla data del parto ed è questo il motivo per cui all’aumentare dei mesi di distanza dal parto, inizia via via a diminuire anche la quantità di latte prodotto dalla mammella.

Ovviamente, com’è tipico della variabilità individuale, vi sono donne capaci di conservare la produzione di latte per più mesi rispetto ad altre. La prolattina infine stimola l’istinto materno, induce un atteggiamento di difesa nei confronti del proprio figlio e aiuta inoltre a combattere il sonno e la fatica.

 

Ossitocina – L’ossitocina è un ormone che inizia ad essere prodotto verso il termine della gravidanza ed esercita un effetto molto importante, favorisce e rende sopportabile il dolore del travaglio, il parto e la successiva espulsione della placenta.

I suoi livelli però non calano dopo il parto, anzi si mantengono elevati anche durante il puerperio grazie all’effetto prodotto dalla suzione del latte dal capezzolo da parte del neonato.

Questa attività infatti evoca un riflesso, noto come riflesso di Ferguson, grazie al quale l’ipotalamo mantiene la produzione dell’ormone che, da una parte, agisce sulla mammella facilitando l’eiezione del latte dal capezzolo, mentre dall’altra, stimola le contrazioni della parete uterina favorendone il ridimensionamento.



Il riflesso non viene evocato solo dalla suzione ma è influenzato anche da altri fattori esterni, sia in senso positivo – pensare al neonato, guardarlo, toccarlo sono azioni che alimentano il riflesso – sia in senso negativo – sentimenti di paura, tristezza, dolore e stress inibiscono il riflesso -.

L’ossitocina gioca un ruolo essenziale anche nella genesi della relazione madre-neonato, stimolando l’attaccamento e il legame della madre nei confronti del figlio, il senso di riconoscimento del neonato come proprio, emozioni da cui scaturisce la volontà da parte della madre di prendersi cura del proprio figlio.

 

La natura ha previsto tutto! Così quando nasce un bambino, nasce anche una mamma.

Il legame tra la mamma e il bambino è fondamentale che venga protetto, sostenuto e favorito. Tutti i meccanismi ormonali che agiscono nell’organismo della donna, nella ricerca di un nuovo e rinnovato equilibrio, possono comportare inciampi momentanei, più o meno gravi.

 

La consapevolezza di ciò che ci accade è già un passo importante. Avvertire di più o di meno gli effetti dei processi ormonali non ha niente a che vedere con il “giudizio” prodotto verso se stesse o dichiarato dagli altri di essere una buona o una cattiva madre. Può accadere di aver bisogno di aiuto e riconoscerlo non è sempre così banale. Soprattutto non c’è niente di male.

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2 Comments

2 Comments

  1. Emanuela

    27 Febbraio 2018 at 23:30

    Un bel articolo con un appunto importante sulla prolattina e sulla produzione del latte …mi dispiace contraddirla ma la giusta informazione non è questa …un allattamento a richiesta porterà la madre ad allattare fin quando il bimbo si attaccherà anche superato i due anni …è la suzione che fa produrre il latte…tutte le donne hanno le stesse capacità se vengono seguite in maniera corretta e con le giuste informazioni. Bisogna sfatare l’idea che non tutte hanno il latte o che finisce……anzi dal momento che il bimbo smette di attaccarsi servono 6 mesi per mandar via il latte dai seni. La ringrazio

    • Giusy

      2 Marzo 2018 at 12:52

      Ciao Emanuela. Come specificato nell’articolo,e come tu stessa hai sottolineato, il riflesso della suzione mantiene la produzione di prolattina e quindi di latte anche dopo il puerperio e per molti mesi a distanza dal parto. Ciò non toglie che la quantità di prolattina effettivamente prodotta si riduca progressivamente, pur continuando a garantire la produzione del latte.
      Nell’articolo non si parla infatti di “latte che finisce” ma di “produzione che lentamente si riduce”, e quando ho parlato di donne che riescono o meno a conservare per più mesi la produzione del latte il riferimento va sempre al riflesso della suzione: se il bambino si attacca il modo corretto al seno, evoca correttamente il riflesso ed il funzionamento di tutto il meccanismo è garantito e continua ad essere garantito. Viceversa se il riflesso non è correttamente evocato la produzione dell’ormone cala più rapidamente e con esso anche quella del latte.
      Spero di aver spiegato in maniera più chiara cosa volessi intendere nell’articolo e grazie a te per sollevato questa questione.

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Salute

Buoni propositi 2021. Sfrutta l’effetto nuovo inizio. Le 3 regole per un reale cambiamento.

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«Da gennaio cambio vita». È davvero possibile?

Scopri come far sì che i buoni propositi per il 2021 si trasformino in una trasformazione reale, per partire davvero con spirito nuovo.

 Il passaggio dell’anno porta con sé la nozione di svolta. Immaginiamo i mesi a venire come tante pagine bianche, tutte opportunità da scrivere. È inevitabile e non si tratta solo di convenzione. In psicologia si chiama “effetto nuovo inizio”, è la spinta motivazionale al cambiamento che ci investe nei momenti di cesura e di passaggio, così universale e tangibile da essere sfruttata molto anche nei processi decisionali legati all’acquisto. Ecco anche perché nei primi giorni di gennaio fioriscono gli sconti e offerte imperdibili sugli abbonamenti annuali.

Il nuovo inizio induce effettivamente una sorta di reset mentale e attiva una spinta innovatrice, utile per riprogrammare mete e obiettivi. Si intraprendono diete ferree, ci si iscrive a corsi di formazione, si anticipa la sveglia per rendere la giornata più produttiva. Si parte alla carica, con entusiasmo e energie fresche e rinnovate. Allora perché la maggior parte delle grandi risoluzioni viene abbandonata nel giro di qualche settimana?

Siamo davvero pronti a ricominciare?

Attribuiamo a date precise il potere di scandire il fluire del tempo e di separare il passato dal presente e dal futuro. Queste cesure temporali ci danno anche la sensazione di delimitare varie fasi della vita e della nostra identità, separando ciò che stiamo stati da quel che siamo e che potremmo diventare. Si ha la sensazione che, da quel momento in poi, tutto potrà essere diverso. Si sono commessi degli errori? Può essere, ma questi non contano più, se ora c’è la possibilità di ricominciare da capo.

Non solo l’inizio dell’anno, ma anche un cambio di stagione, il primo del mese, il lunedì e perfino l’alba possono darci l’energia adatta per un cambiamento. Più questi riferimenti temporali sono riconosciuti a livello collettivo o significativi per l’individuo (per es. l’anniversario di un lutto o della fine di una relazione), maggiore è la loro presa su di noi. Quest’anno immaginiamo un desiderio collettivo di chiudere con il 2020 molto intenso e allora non sciupiamo l’occasione per realizzare un cambiamento che ci porti ad essere più felici.

 

Ecco le 3 regole per non perdere l’effetto del nuovo inizio.

No ai gesti impulsivi: serve strategia

L’effetto nuovo inizio, tuttavia, dopo un po’ sfuma. La spinta iniziale e il desiderio, da soli, non bastano. Ed ecco spiegato il fallimento di tanti progetti di inizio anno. Per concretizzarli, il segreto è far sì che mettano radici nella nostra motivazione e nella routine, altrimenti li accantoneremo senza neanche accorgercene.

Prima di iniziare, proviamo quindi a chiederci che significato ha per noi il raggiungimento di un obiettivo e perché lo riteniamo importante. Quali conseguenze potrebbe avere la sua realizzazione? Quali le implicazioni, positive o negative, per noi e per chi ci circonda? E soprattutto, siamo davvero disposti ad accogliere gli effetti di quel cambiamento?

Spostiamo poi la riflessione su un piano pratico. Quali sono gli step per raggiungere l’obiettivo? Come pensiamo di inserirlo, concretamente nella nostra vita? Che costi avrà in termini di tempo, impegno e denaro?
Scriviamo le risposte su un taccuino, registriamole in una nota vocale indirizzata a noi stessi oppure parliamone con un amico.

Questo ci aiuterà a introiettare l’idea, a renderla un po’ più nostra, ma anche a selezionare gli obiettivi che davvero fanno per noi, scremando ciò di cui non ci importa realmente e che finiremmo per lasciar perdere nel giro di poco. E, al contempo, a essere preparati agli ostacoli e alle difficoltà che, inevitabilmente, si incontreranno.

A piccoli step, verso la meta.          

Invece di progettare una ristrutturazione drastica e completa dell’esistenza, che può rivelarsi irrealistica e difficilmente sostenibile, è utile focalizzarsi su un’area alla volta e procedere per piccoli step, suddividendo un obiettivo impegnativo in blocchi di sotto-obiettivi più facili da conseguire a breve termine.
Anziché prefiggersi di perdere 10 chili, cominciare con 2. Non imporsi un allenamento quotidiano: iniziare una volta a settimana.

Se l’obiettivo è troppo ambizioso e vago, con il passare dei giorni sarà sempre più difficile mantenere viva la motivazione necessaria a compiere i sacrifici che servono a portarlo avanti. Tenderemo a procrastinare, saremo presi dall’ansia e desisteremo più facilmente.

Obiettivi minori e sostenibili, invece, risultano più gratificanti, alimentano l’autostima e ci mantengono motivati. E sono anche più strategici: una volta raggiunti, prefiggersi un ulteriore passo in avanti nell’ambito di una routine già avviata (perdere altri 2 kg, allenarsi mezz’ora in più alla settimana, ecc.) costerà meno sforzi e ci avvicinerà alla meta finale.

Fare spazio al nuovo                        

Per favorire un nuovo inizio, è utile alleggerire la mente e la vita quotidiana da ciò che, con il tempo, è diventato zavorra. Passiamo in rassegna la casa, l’armadio, il computer, la casella delle mail e il cellulare. Eliminiamo gli oggetti, i vestiti, i documenti non più utili e attuali. Non stiamo solo riordinando, ma compiendo un’operazione di rinnovamento, per fare spazio a tutto ciò che potrà arricchirci nei mesi a venire. Facciamo spazio al nuovo anche nei comportamenti: individuiamo quei gesti, quelle azioni disfunzionali che ci portano ad ottenere inevitabilmente sempre gli stessi risultati che ci fanno soffrire. Anche in questo caso vale la regola del piccolo passo. Piccoli passi amorevoli per noi stessi. Non guardiamo la montagna che ci sembra di dover scalare per riuscire a risolvere i nostri problemi esistenziali; iniziamo con un piccolo passo, una piccola buona abitudine e una volta consolidata portiamo nel nostro quotidiano altre novità. Pensiamo ad aggiungere più che a sottrarre. Buone abitudini ridurranno di conseguenza quelle che non ci fanno bene.

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Salute

La telemedicina: il paziente al centro della rivoluzione digitale

Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.

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Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.

Quando parliamo di telemedicina, non ci riferiamo semplicemente ad una serie di visite attraverso lo strumento virtuale o a delle consulenze mediche da remoto, ma a progetti di vera e propria assistenza territoriale al paziente, per coniugare cura e domicilio e favorire il rapporto assistenziale ospedale-territorio-paziente.

I vantaggi dell’assistenza ai malati cronici e rari

Le patologie più complesse, croniche, sia rare che non, hanno un alto tasso di comorbilità e richiedono più specialisti che interagiscano con il paziente nonché fra loro, con un impegno notevole da parte del paziente stesso, così come dei caregivers che se ne prendono cura, per sostenere visite spesso anche lontano dal proprio domicilio, per i costi, e talvolta anche per integrare le varie consulenze ed informazioni ricevute.

I primi progetti ospedalieri di telemedicina, sono stati realizzati proprio per sopperire a tutte queste criticità, e nello stesso tempo per migliorare anche la tempestività dei ricoveri, soprattutto in situazioni di emergenza.

Da diversi anni è emersa la necessità di apportare un cambiamento nel supporto ai pazienti più a rischio, cercando di influenzarne positivamente la qualità della vita e la gestione della malattia, e la pandemia ha evidenziato quanta differenza possa fare l’ avvalersi  delle tecnologie digitali, nel monitorare coloro che sono più a rischio.

L’uso di app per smartphone e per dispositivi mobili, attraverso le quali inserire i valori dei parametri da monitorare e comunicarli in tempo reale all’equipe di riferimento, programmi di teleconsulto, che consentono la condivisione e la valutazione in contemporanea della situazione clinica, da parte di più specialisti, programmi che consentono la valutazione di sindromi genetiche, sulla base di caratteristiche morfologiche, questi sono solo alcuni dei progetti e degli strumenti a cui si lavora da qualche anno.

Telemedicina e malattie cardiovascolari

I pazienti considerati a rischio di malattie cardiovascolari, ipertesi, così come diverse persone  con un principio di sindrome metabolica, sono stati tra i primi ad usufruire di progetti pilota di telemedicina, con il controllo attivo da parte degli ambulatori di riferimento, soprattutto per la gestione della terapia e per valutare il rapporto aderenza terapeutica – benefici. Questi percorsi sono stati di grande utilità per migliorare anche la prevenzione, per comunicare con il paziente sui possibili dubbi, effetti collaterali, e sull’impatto dello stile di vita nell’acuirsi del rischio. La possibilità di monitorare la frequenza cardiaca attraverso delle app per dispositivi mobili è ormai una realtà, così come per la pressione arteriosa, il che consente a molti pazienti cardiopatici, ipertesi, e con fattori di rischio importanti (obesità, diabete, dislipidemie) di autogestirsi quotidianamente e nel contempo ricevere supporto dagli specialisti, ad esempio quando l’aderenza terapeutica non è costante ed è necessario intervenire.

La medicina digitale e il paziente al centro

Uno degli obiettivi che si pone la telemedicina, non è ridurre il rapporto medico paziente ad un monitor o ad un messaggio, ma al contrario è quello di mettere la persona al centro, il paziente al centro, ed intorno costruire una rete fatta di servizi, che non solo siano in grado di assisterlo nella malattia ma anche garantire quella qualità di vita, che spesso una patologia complessa fa perdere.

La teleassistenza vuol favorire sempre di più l’home care, perché il paziente possa spostarsi da casa solo quando necessario, evitando rischi che molte persone fragili corrono, nonché uno stress fisico e mentale non indifferente. Pensiamo ad esempio a persone molto anziane, ai soggetti immunodepressi, con patologia autoimmune, trapiantati d’organo, o a coloro che si sottopongono a terapie oncologiche, possono trovare un grande beneficio dalla teleassistenza, specie nel monitoraggio quotidiano, poiché nello stesso tempo il medico di riferimento può controllare qualsiasi cambiamento in tempo reale e comunicare con il paziente, che si sente costantemente seguito, anche quando non si reca di persona nella struttura. È importante sottolineare come la costruzione della rete di servizi di e-health ed in presenza possa comprendere anche tutta quella parte burocratica di piani terapeutici, richiesta di farmaci e di servizi assistenziali, che spesso diventa macchinosa e complicata.

Dalla neurologia al supporto psicologico

Uno dei campi in cui la telemedicina sta trovando applicazione, con successo, è la neurologia, e molto interessante è un articolo riportato  dal British Medical Journal pubblicato su Practical Neurology, dove vengono tracciate le linee guida per i neurologi, su come gestire i pazienti in teleassistenza, e sull’importanza di fare in modo che il paziente o il familiare/caregiver sia dotato di un adeguato strumento digitale, con schermo e telecamera e di una connessione internet. Oltre all’anamnesi familiare e a tutta la parte legata alla storia del paziente, attraverso la televisita è possibile valutare eventuali difficoltà nel linguaggio, nel movimento e nella coordinazione ( si può chiedere di alzarsi e sedersi, camminare, fare movimenti a richiesta), e nell’attenzione. Tutto questo lavoro preliminare avvantaggia molto la futura diagnosi, con guadagno di tempo e per chi non ha la possibilità di recarsi facilmente ad una visita in presenza, non sostituendosi alla medicina ambulatoriale ed ospedaliera ma integrandosi con essa e rendendola fruibile a più persone possibili.

Le potenzialità della medicina digitale si prestano bene ai servizi di supporto psicologico, che sono sempre più richiesti, dagli adolescenti alle problematiche postpartum, alla consulenza familiare fino all’impatto delle altre malattie nella propria vita. Potrebbe sembrare un modo asettico per affrontare la psicoterapia, e invece ha molti risvolti positivi, soprattutto quando si ha difficoltà ad integrarla con altri impegni, per molti l’utilizzo di uno strumento virtuale può essere anche un modo per superare eventuali paure, imbarazzi nell’affrontare la richiesta di aiuto, e lì dove mancano, sul territorio, servizi ambulatoriali  di supporto psicologico, questo può essere un sistema concreto per supportare più persone ed interagire con altri specialisti per costruire percorsi adeguati.

La medicina del presente e del futuro ha bisogno della tecnologia digitale, per offrire al paziente, al centro di tutto, i migliori percorsi di cura, capaci di offrire diagnosi rapide, terapie adeguate, qualità di vita e rapporto medico-paziente, al quale niente mai potrà sostituirsi.

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Salute

Alimentazione e fibromialgia: ecco le regole d’oro

L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.

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L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.

In attesa di trovare una terapia valida ed efficace in grado di aiutare tutti i pazienti che soffrono di fibromialgia, è importante che, chi ne soffre, riesca a mitigare i sintomi del disturbo in modo da migliorare la propria qualità della vita.

Un aspetto importante, non unico ma comunque centrale, è quello relativo all’alimentazione, poiché la letteratura scientifica sta evidenziando una correlazione stretta tra il consumo di alcune tipologie di alimenti e il peggioramento delle condizioni cliniche del paziente. Vale dunque la pena approfondire il discorso e lo possiamo fare con un esperto: si tratta del dottor Daniele Buttitta, medico e nutrizionista che ha svolto attività di consulenza al tavolo tecnico regionale (per la regione Sicilia) sul trattamento della fibromialgia.

Dottore, cominciamo subito con la domanda più importante: la modifica di alcune abitudini alimentari può essere di giovamento al paziente fibromialgico?

Entro una certa misura sì, e lo dico tanto in base alla la mia esperienza, quanto confortato dalla letteratura scientifica che si sta producendo in merito, da alcuni anni a questa parte.

Ciò detto dobbiamo sempre tenere conto del fatto che la fibromialgia è una patologia complessa e che richiede uno sforzo multidisciplinare, per offrire i risultati migliori.

I trattamenti monospecialistici non hanno dato, a oggi, risultati ottimali e pertanto preferirei che i pazienti che soffrono di questa patologia avessero ben presente che un approccio nutrizionale alla malattia deve essere considerato parte di un percorso, ma non certo tutto il tragitto.

Qual è l’importanza della corretta nutrizione, per un paziente affetto da fibromialgia?

La correzione di alcune abitudini e l’educazione a una nutrizione più adatta alle caratteristiche del fibromialgico ha dimostrato di poter facilitare il recupero di una buona qualità della vita.

Per prima cosa ritengo molto importante cercare di recuperare la regolarità intestinale, ripristinando quindi una corretta composizione della flora e migliorando l’efficienza delle mucose. Un intestino che funziona bene, infatti, consente di elaborare e assorbire meglio i nutrienti contenuti nel cibo, così da evitare carenze e diminuire i disturbi di tipo enterico che spesso affliggono i pazienti affetti da fibromialgia. In questo modo migliora la resistenza alla fatica, diminuisce la sensibilità al dolore, migliora la qualità del sonno e con esso anche la prontezza cognitiva.

Come si recupera una buona funzione intestinale?

Le ricerche indicano che alcuni alimenti peggiorano la funzione stessa.

Tra questi cito in primo luogo gli zuccheri semplici e le farine raffinate, che andrebbero eliminate totalmente. Dopodiché, almeno in una prima fase, io preferisco eliminare latte e latticini. Una terza categoria alimentare, che va eliminata dalla dieta del fibromialgico sono le solanacee e quindi i peperoni, i pomodori, le melanzane e le patate. Un discorso a parte va fatto per il mais.

Che discorso?

Anche se i pazienti fibromialgici non sono celiaci in senso stretto, si è notato che una riduzione del glutine, nella loro dieta, porta benefici.

Tuttavia, in tale sostituzione, si tende ad abusare di prodotti derivati dal mais che, nonostante non contengano glutine, non sono comunque ideali per il paziente fibromialgico (probabilmente per la sensibilità alle fumonisine, funghi microscopici che possono produrre specifiche tossine in grado di esacerbare i sintomi della FM.) Pertanto io suggerisco l’eliminazione del mais e dei suoi derivati, e incoraggio invece il consumo di farine alternative quali grano saraceno, farine di riso, miglio, quinoa eccetera.

Quali sono gli effetti di queste limitazioni, per i pazienti fibromialgici?

L’idea è che servano a preparare il terreno biologico, in modo da rendere più efficaci le terapie proposte da altri specialisti.

L’aspetto della preparazione del terreno biologico è importante, poiché dobbiamo pensare che spesso questi pazienti arrivano a una diagnosi dopo molti anni di nomadismo medico e dopo avere assunto farmaci e integratori di ogni genere. Si rende allora necessario, prima ancora di ogni altro intervento, correggere il metabolismo del paziente, in modo da restituirgli la capacità di rispettare i ritmi circadiani e, con essi, ri-imparare ad assecondare le necessità nutrizionali mano a mano che muta, nella giornata, l’assetto ormonale.

Purtroppo non è possibile definire una sorta di regime alimentare standard valido per tutti i pazienti fibromialgici, ma le indicazioni sulle limitazioni sono in genere comuni. A proposito: il rispetto del metabolismo richiede anche l’abolizione dei tonici, di cui spesso ed erroneamente molti fibromialgici fanno uso nel tentativo di “darsi una carica”. Dunque caffè, cioccolata e tè nero sarebbero da evitare.

Posto che non possiamo indicare un regime alimentare universalmente valido, possiamo almeno dare alcuni suggerimenti di massima su che cosa si può mangiare?

Direi che il suggerimento migliore è quello di avere varietà alimentare, privilegiando il più possibile cibi freschi, per avere una maggiore ricchezza di vitamine e minerali.

Ci vogliono quindi le proteine, meglio se vegetali, i grassi (con un regolare consumo di olio di oliva a crudo e avendo cura di assumere anche acidi grassi essenziali tipo omega 3 e 6 nelle giuste proporzioni, attraverso pesce di acque fredde e frutta secca) e, per ciò che riguarda gli zuccheri, si devono scegliere carboidrati complessi, in modo da poter contare su una produzione costante di energia, senza sbalzi glicemici. Importante è anche l’idratazione: l’acqua è il solvente fondamentale per ogni processo biochimico che avviene nel corpo umano e dunque bere acqua, regolarmente, è indispensabile.

Come si pone a proposito degli integratori?

Vanno eventualmente prescritti caso per caso e non prima di avere fatto delle analisi opportune per evidenziare eventuali carenze. È possibile che, in caso di intestino infiammato, ci siano delle carenze date da malassorbimento che potrebbero richiedere un aiuto in forma di integrazione. Comunque sia mi preme sottolineare come la sostanza che probabilmente risulta essere più necessaria, per via di una generale carenza diffusa anche nella popolazione non fibromialgica, è quella di vitamina D (per avere una panoramica sulla vitamina D e il suo ruolo nell’organismo, clicca qui).

La vitamina D, infatti, che tutti conosciamo per la sua azione sulle ossa, è in realtà in grado di intervenire in oltre 2000 processi di attivazione dei geni e, dunque, una sua carenza può avere conseguenze metaboliche importanti. Che possono senz’altro peggiorare il quadro del paziente fibromialgico.

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