Salute
Come si cura il Covid a casa?
La maggior parte dei pazienti affetti da coronavirus non ha bisogno di cure ospedaliere, ma può gestire la malattia nella propria abitazione. Ne abbiamo parlato con Paolo Vercellesi, medico e pediatra, che ci racconta che cosa succede “nel territorio”.

La maggior parte dei pazienti affetti da coronavirus non ha bisogno di cure ospedaliere, ma può gestire la malattia nella propria abitazione. Ne abbiamo parlato con Paolo Vercellesi, medico e pediatra, che ci racconta che cosa succede “nel territorio”.
L’emergenza Covid, nella sua prima fase come in questa seconda ondata, ha avuto dei protagonisti silenziosi, da subito: i medici di medicina generale. Mentre noi tutti ci siamo preoccupati (e ci stiamo preoccupando) di seguire i dati relativi a tamponi e terapie intensive, ecco che rischiamo a volte di dimenticare come la maggior parte dei pazienti affetti da Covid-19 debba fronteggiare la malattia a casa propria con i dubbi, le incertezze e le preoccupazioni del caso. Sono pazienti seguiti dai medici di medicina generale o dai pediatri di libera scelta, che rappresentano la “prima linea” di questa battaglia sanitaria. Abbiamo allora affrontato l’argomento di come si presenta questa linea del fronte con un medico di medicina generale, il dottor Paolo Vercellesi, che esercita a Milano, e che per formazione medica è anche pediatra; esercita inoltre come medico scolastico.
Dottore, come giudica dal suo punto di vista la situazione attuale rispetto a quella della prima ondata?
Posto il fatto che il mio è un osservatorio personale e dunque assolutamente parziale per definizione, ciò che posso vedere è che le persone più anziane sono più informate e attente di quanto non sia accaduto nella prima ondata. Purtroppo sono anche più spaventate e ciò li porta spesso ad auto isolarsi, quasi come un regime di lockdown auto imposto. Vedo comunque, e anche i colleghi con cui sono in contatto mi riportano situazioni simili, che l’infezione è abbastanza trasversale e colpisce tutte le fasce di età nel medesimo modo. Per ciò che riguarda la situazione epidemiologica, non posso e non voglio dare indicazioni assolute. Mi limito comunque a dire che la situazione mi sembra simile alla prima ondata.
Durante la prima ondata che lei ha appena citato, la medicina di base è stata considerata un po’ la grande assente, almeno sui media. Come giudica tale affermazione?
Ne sono davvero dispiaciuto perché non si è dato conto del lavoro che è stato fatto sul territorio per evitare contagi e ospedalizzazioni. Che poi si sia pagato, nella prima fase, lo scotto di una impreparazione del sistema è un dato che non riguarda solo la medicina di base ma tutta la filiera sanitaria. È una situazione che si è verificata a livello mondiale e non solo nella realtà italiana. Ciò però va anche spiegato in base a quello che ci aspettavamo di vedere: una situazione diversa da quella che poi si è verificata.
Che cosa vi aspettavate di vedere?
Una malattia che colpisse soprattutto i giovani, poiché le esperienze precedenti con altri coronavirus (quelli della SARS e della MERS) e le prime indicazioni giunte dalla Cina andavano in questa direzione. La malattia ha invece insistito soprattutto su una fascia di popolazione diversa da quella che sembrava essere più a rischio. Oggi, con pochi mesi di esperienza in più, abbiamo una capacità di gestione del paziente che è molto diversa.
Quali sono le differenze più importanti, relativamente all’arsenale medico che avete a disposizione per trattare i pazienti covid positivi a casa?
Per noi si sta rivelando decisivo l’uso dell’eparina per la profilassi antitrombotica. Questa terapia ha cambiato notevolmente il nostro approccio alla malattia.
Nella terapia domiciliare della Covid-19 trovano impiego anche gli antibiotici, per curare e prevenire sovrinfezioni batteriche che nella Covid-19 sono molto frequenti; inoltre alcuni antibiotici hanno proprietà antinfiammatorie e anche questo aiuta. La scelta dell’antibiotico è clinica e si basa sulla sintomatologia.
La terapia cortisonica è stata inizialmente osteggiata, perché se da un lato riduce l’infiammazione aiutando quindi la funzione respiratoria, dall’altro induce una riduzione della risposta immunitaria, necessaria perché l’organismo combatta l’infezione. Con l’acquisizione dell’esperienza si è visto che i benefici tendono a superare i rischi.
L’idrossiclorochina è un farmaco con proprietà antimalariche, antinfiammatorie e antivirali. Il suo utilizzo è tuttora discusso per via di una certa tossicità cardiaca, soprattutto in associazione con alcuni antibiotici, e per non avere dimostrato efficacia sui pazienti trattati in ospedale. Il suo utilizzo nelle fasi precoci della malattia, invece, sembra essere promettente.
La febbre, se presente, può essere trattata con i comuni antipiretici.
Personalmente non amo molto l’utilizzo di farmaci sedativi della tosse, perché la tosse, prima di essere sintomo, è una forma di difesa delle vie aeree. La tosse caratterizzata da fischi e costrizione dei bronchi può e dovrebbe invece essere trattata con i broncodilatatori.
Le terapie domiciliari della Covid-19 hanno un ottimo profilo di sicurezza e non inficiano in alcun modo la diagnosi, quindi possono essere assunte anche prima di avere effettuato il tampone, soprattutto perché le loro efficacia è massima nelle fasi precoci della malattia; questo è molto importante in questo momento in cui il rapido diffondersi dell’epidemia ha determinato un certo ritardo nell’effettuazione dei tamponi e quindi della possibilità di avere una diagnosi eziologica certa.
Un altro presidio di fondamentale importanza sono i tamponi rapidi: secondo me sono uno strumento molto utile, specialmente se usati a domicilio o in situazioni mirate, poiché permettono di avere una risposta sì/no in quindici minuti al massimo e quindi possiamo impostare le terapie in maniera più appropriata nei casi dubbi. A proposito dei tamponi è necessario che, come medico di medicina generale, faccia una precisazione doverosa perché anche qui sta passando un messaggio sbagliato, cioè quello per cui i medici di base non vogliono farli.
Qual è la sua posizione in merito?
La mia, che poi rispecchia anche quella di molti colleghi che sento quotidianamente, è la seguente: noi siamo assolutamente in grado di fare i test, ma nella grande maggioranza dei casi i nostri ambulatori non sono attrezzati per gestire in sicurezza un alto flusso di pazienti, ad esempio creando un doppio percorso di entrata/uscita dei pazienti dall’ambulatorio. Questo significa correre il rischio di creare assembramenti all’interno di strutture di tipo condominiale, dove la maggior parte dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta ha i propri ambulatori. A ciò vado anche ad aggiungere un altro aspetto della questione: fare i tamponi è utile e importante ma non è una prescrizione che richiede necessariamente una “manu medica”. Io credo che sia più importante avere i medici a disposizione sul territorio per visite, consulenze e per presidiare il territorio; per i tamponi potrebbe essere arruolato personale debitamente preparato e dedicato, all’interno di strutture pubbliche idonee da un punto di vista della ricettività. Un discorso simile a quello fatto per i tamponi vale anche per la burocrazia relativa a permessi, assenze e comunicazioni: sarebbe necessaria una maggiore elasticità, in questi periodi di emergenza, per fare in modo che i medici facciano ciò che è più importante fare, in questo momento.
Le mette in giusto risalto la necessità di essere messi in condizione di fare il proprio mestiere. Allo stesso tempo molti si lamentano del fatto che i medici non visitano più i pazienti. Come salviamo il rapporto tra paziente e dottore?
Dobbiamo avere reciproca fiducia a spirito collaborativo: i nostri bacini di utenza sono ampi e visitare tutti è fisicamente impossibile. Quindi dobbiamo dedicare le visite a domicilio ai casi che comprendiamo essere più complessi sulla base della nostra capacità di riconoscimento. Preciso allora una cosa importante: la valutazione del medico si basa, al 90%, su una anamnesi ben fatta, ovvero sulla raccolta delle informazioni facendo le domande giuste al paziente e ascoltandolo con attenzione. Questo aspetto del rapporto è anche più importante della visita in sé e per sé, che spesso rappresenta la conferma del racconto e, quindi, del sospetto diagnostico. Nel caso di Covid-19, poi, dato che la clinica è indistinguibile da affezioni respiratorie di origine diversa, la diagnosi è essenzialmente basata sulla descrizione dei sintomi. Sono quindi stati messi a punto dei sistemi di triage telefonico che consentono di farsi un’idea sufficientemente chiara della situazione anche se non si è in presenza. Ovviamente nessun medico si sottrae poi alla visita di quel caso che ha individuato come prioritario.
La paura di rimanere “orfani” di punti di riferimento sanitari ha messo molti in condizione di improvvisarsi medici di se stessi. Che pensa del fatto che molti ritengono indispensabile dotarsi di un saturimetro, per monitorare le condizioni di salute?
Il saturimetro è uno strumento utile se usato in maniera opportuna e ciò significa, in questo caso, non affidarsi completamente a esso per valutare una difficoltà respiratoria. Un paziente potrebbe infatti avere livelli di saturazione soddisfacenti, ottenuti però con l’aumento della frequenza degli atti respiratori. Ecco allora che il numero in sé non mi dà una rappresentazione corretta dell’effettivo stato di salute del paziente stesso. Se il paziente mi racconta di avere la sensazione che gli manchi l’aria, il valore del saturimetro va letto ma non preso come riferimento assoluto.
Un’ultima domanda è sui bambini: come vanno gestiti, a casa, i piccoli affetti da Covid?
Dobbiamo fare un doppio ragionamento, in questo caso. Prima di tutto dobbiamo sapere che la malattia, nell’infanzia e adolescenza, si presenta con sintomi e con decorso simili a quelli di una influenza più o meno severa e solo in casi limitati dà complicazioni. Il vero problema è quello dei contagi inter-familiari, poiché i bambini hanno bisogno di essere accuditi, il che ovviamente espone i genitori alla possibilità di contagio. Fortunatamente anche nella fascia dai 30 ai 50 anni, quella dei genitori dei bambini in età da scuola dell’obbligo, i casi severi di Covid sono una larga minoranza. Resta però il fatto che la necessità di accudimento del bambino deve essere accompagnata dalle norme di prudenza che contraddistinguono questa situazione e, di conseguenza, raccomando l’uso delle mascherine anche a casa, il lavaggio frequente delle mani, l’utilizzo di stoviglie e asciugamani dedicati solo per il malato. Raccomanderei infine di evitare, per quanto possibile, che siano i nonni a prendersi cura dei piccoli malati, perché è nelle persone meno giovani che il decorso della malattia è più severo.
Salute
Buoni propositi 2021. Sfrutta l’effetto nuovo inizio. Le 3 regole per un reale cambiamento.

«Da gennaio cambio vita». È davvero possibile?
Scopri come far sì che i buoni propositi per il 2021 si trasformino in una trasformazione reale, per partire davvero con spirito nuovo.
Il passaggio dell’anno porta con sé la nozione di svolta. Immaginiamo i mesi a venire come tante pagine bianche, tutte opportunità da scrivere. È inevitabile e non si tratta solo di convenzione. In psicologia si chiama “effetto nuovo inizio”, è la spinta motivazionale al cambiamento che ci investe nei momenti di cesura e di passaggio, così universale e tangibile da essere sfruttata molto anche nei processi decisionali legati all’acquisto. Ecco anche perché nei primi giorni di gennaio fioriscono gli sconti e offerte imperdibili sugli abbonamenti annuali.
Il nuovo inizio induce effettivamente una sorta di reset mentale e attiva una spinta innovatrice, utile per riprogrammare mete e obiettivi. Si intraprendono diete ferree, ci si iscrive a corsi di formazione, si anticipa la sveglia per rendere la giornata più produttiva. Si parte alla carica, con entusiasmo e energie fresche e rinnovate. Allora perché la maggior parte delle grandi risoluzioni viene abbandonata nel giro di qualche settimana?
Siamo davvero pronti a ricominciare?
Attribuiamo a date precise il potere di scandire il fluire del tempo e di separare il passato dal presente e dal futuro. Queste cesure temporali ci danno anche la sensazione di delimitare varie fasi della vita e della nostra identità, separando ciò che stiamo stati da quel che siamo e che potremmo diventare. Si ha la sensazione che, da quel momento in poi, tutto potrà essere diverso. Si sono commessi degli errori? Può essere, ma questi non contano più, se ora c’è la possibilità di ricominciare da capo.
Non solo l’inizio dell’anno, ma anche un cambio di stagione, il primo del mese, il lunedì e perfino l’alba possono darci l’energia adatta per un cambiamento. Più questi riferimenti temporali sono riconosciuti a livello collettivo o significativi per l’individuo (per es. l’anniversario di un lutto o della fine di una relazione), maggiore è la loro presa su di noi. Quest’anno immaginiamo un desiderio collettivo di chiudere con il 2020 molto intenso e allora non sciupiamo l’occasione per realizzare un cambiamento che ci porti ad essere più felici.
Ecco le 3 regole per non perdere l’effetto del nuovo inizio.
No ai gesti impulsivi: serve strategia
L’effetto nuovo inizio, tuttavia, dopo un po’ sfuma. La spinta iniziale e il desiderio, da soli, non bastano. Ed ecco spiegato il fallimento di tanti progetti di inizio anno. Per concretizzarli, il segreto è far sì che mettano radici nella nostra motivazione e nella routine, altrimenti li accantoneremo senza neanche accorgercene.
Prima di iniziare, proviamo quindi a chiederci che significato ha per noi il raggiungimento di un obiettivo e perché lo riteniamo importante. Quali conseguenze potrebbe avere la sua realizzazione? Quali le implicazioni, positive o negative, per noi e per chi ci circonda? E soprattutto, siamo davvero disposti ad accogliere gli effetti di quel cambiamento?
Spostiamo poi la riflessione su un piano pratico. Quali sono gli step per raggiungere l’obiettivo? Come pensiamo di inserirlo, concretamente nella nostra vita? Che costi avrà in termini di tempo, impegno e denaro?
Scriviamo le risposte su un taccuino, registriamole in una nota vocale indirizzata a noi stessi oppure parliamone con un amico.
Questo ci aiuterà a introiettare l’idea, a renderla un po’ più nostra, ma anche a selezionare gli obiettivi che davvero fanno per noi, scremando ciò di cui non ci importa realmente e che finiremmo per lasciar perdere nel giro di poco. E, al contempo, a essere preparati agli ostacoli e alle difficoltà che, inevitabilmente, si incontreranno.
A piccoli step, verso la meta.
Invece di progettare una ristrutturazione drastica e completa dell’esistenza, che può rivelarsi irrealistica e difficilmente sostenibile, è utile focalizzarsi su un’area alla volta e procedere per piccoli step, suddividendo un obiettivo impegnativo in blocchi di sotto-obiettivi più facili da conseguire a breve termine.
Anziché prefiggersi di perdere 10 chili, cominciare con 2. Non imporsi un allenamento quotidiano: iniziare una volta a settimana.
Se l’obiettivo è troppo ambizioso e vago, con il passare dei giorni sarà sempre più difficile mantenere viva la motivazione necessaria a compiere i sacrifici che servono a portarlo avanti. Tenderemo a procrastinare, saremo presi dall’ansia e desisteremo più facilmente.
Obiettivi minori e sostenibili, invece, risultano più gratificanti, alimentano l’autostima e ci mantengono motivati. E sono anche più strategici: una volta raggiunti, prefiggersi un ulteriore passo in avanti nell’ambito di una routine già avviata (perdere altri 2 kg, allenarsi mezz’ora in più alla settimana, ecc.) costerà meno sforzi e ci avvicinerà alla meta finale.
Fare spazio al nuovo
Per favorire un nuovo inizio, è utile alleggerire la mente e la vita quotidiana da ciò che, con il tempo, è diventato zavorra. Passiamo in rassegna la casa, l’armadio, il computer, la casella delle mail e il cellulare. Eliminiamo gli oggetti, i vestiti, i documenti non più utili e attuali. Non stiamo solo riordinando, ma compiendo un’operazione di rinnovamento, per fare spazio a tutto ciò che potrà arricchirci nei mesi a venire. Facciamo spazio al nuovo anche nei comportamenti: individuiamo quei gesti, quelle azioni disfunzionali che ci portano ad ottenere inevitabilmente sempre gli stessi risultati che ci fanno soffrire. Anche in questo caso vale la regola del piccolo passo. Piccoli passi amorevoli per noi stessi. Non guardiamo la montagna che ci sembra di dover scalare per riuscire a risolvere i nostri problemi esistenziali; iniziamo con un piccolo passo, una piccola buona abitudine e una volta consolidata portiamo nel nostro quotidiano altre novità. Pensiamo ad aggiungere più che a sottrarre. Buone abitudini ridurranno di conseguenza quelle che non ci fanno bene.
Salute
La telemedicina: il paziente al centro della rivoluzione digitale
Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.

Le nuove tecnologie digitali applicate alla medicina, negli ultimi anni, hanno portato molti progressi soprattutto nella gestione e nel monitoraggio delle patologie più complesse, sia per gli specialisti che per i pazienti stessi.
Quando parliamo di telemedicina, non ci riferiamo semplicemente ad una serie di visite attraverso lo strumento virtuale o a delle consulenze mediche da remoto, ma a progetti di vera e propria assistenza territoriale al paziente, per coniugare cura e domicilio e favorire il rapporto assistenziale ospedale-territorio-paziente.
I vantaggi dell’assistenza ai malati cronici e rari
Le patologie più complesse, croniche, sia rare che non, hanno un alto tasso di comorbilità e richiedono più specialisti che interagiscano con il paziente nonché fra loro, con un impegno notevole da parte del paziente stesso, così come dei caregivers che se ne prendono cura, per sostenere visite spesso anche lontano dal proprio domicilio, per i costi, e talvolta anche per integrare le varie consulenze ed informazioni ricevute.
I primi progetti ospedalieri di telemedicina, sono stati realizzati proprio per sopperire a tutte queste criticità, e nello stesso tempo per migliorare anche la tempestività dei ricoveri, soprattutto in situazioni di emergenza.
Da diversi anni è emersa la necessità di apportare un cambiamento nel supporto ai pazienti più a rischio, cercando di influenzarne positivamente la qualità della vita e la gestione della malattia, e la pandemia ha evidenziato quanta differenza possa fare l’ avvalersi delle tecnologie digitali, nel monitorare coloro che sono più a rischio.
L’uso di app per smartphone e per dispositivi mobili, attraverso le quali inserire i valori dei parametri da monitorare e comunicarli in tempo reale all’equipe di riferimento, programmi di teleconsulto, che consentono la condivisione e la valutazione in contemporanea della situazione clinica, da parte di più specialisti, programmi che consentono la valutazione di sindromi genetiche, sulla base di caratteristiche morfologiche, questi sono solo alcuni dei progetti e degli strumenti a cui si lavora da qualche anno.
Telemedicina e malattie cardiovascolari
I pazienti considerati a rischio di malattie cardiovascolari, ipertesi, così come diverse persone con un principio di sindrome metabolica, sono stati tra i primi ad usufruire di progetti pilota di telemedicina, con il controllo attivo da parte degli ambulatori di riferimento, soprattutto per la gestione della terapia e per valutare il rapporto aderenza terapeutica – benefici. Questi percorsi sono stati di grande utilità per migliorare anche la prevenzione, per comunicare con il paziente sui possibili dubbi, effetti collaterali, e sull’impatto dello stile di vita nell’acuirsi del rischio. La possibilità di monitorare la frequenza cardiaca attraverso delle app per dispositivi mobili è ormai una realtà, così come per la pressione arteriosa, il che consente a molti pazienti cardiopatici, ipertesi, e con fattori di rischio importanti (obesità, diabete, dislipidemie) di autogestirsi quotidianamente e nel contempo ricevere supporto dagli specialisti, ad esempio quando l’aderenza terapeutica non è costante ed è necessario intervenire.
La medicina digitale e il paziente al centro
Uno degli obiettivi che si pone la telemedicina, non è ridurre il rapporto medico paziente ad un monitor o ad un messaggio, ma al contrario è quello di mettere la persona al centro, il paziente al centro, ed intorno costruire una rete fatta di servizi, che non solo siano in grado di assisterlo nella malattia ma anche garantire quella qualità di vita, che spesso una patologia complessa fa perdere.
La teleassistenza vuol favorire sempre di più l’home care, perché il paziente possa spostarsi da casa solo quando necessario, evitando rischi che molte persone fragili corrono, nonché uno stress fisico e mentale non indifferente. Pensiamo ad esempio a persone molto anziane, ai soggetti immunodepressi, con patologia autoimmune, trapiantati d’organo, o a coloro che si sottopongono a terapie oncologiche, possono trovare un grande beneficio dalla teleassistenza, specie nel monitoraggio quotidiano, poiché nello stesso tempo il medico di riferimento può controllare qualsiasi cambiamento in tempo reale e comunicare con il paziente, che si sente costantemente seguito, anche quando non si reca di persona nella struttura. È importante sottolineare come la costruzione della rete di servizi di e-health ed in presenza possa comprendere anche tutta quella parte burocratica di piani terapeutici, richiesta di farmaci e di servizi assistenziali, che spesso diventa macchinosa e complicata.
Dalla neurologia al supporto psicologico
Uno dei campi in cui la telemedicina sta trovando applicazione, con successo, è la neurologia, e molto interessante è un articolo riportato dal British Medical Journal pubblicato su Practical Neurology, dove vengono tracciate le linee guida per i neurologi, su come gestire i pazienti in teleassistenza, e sull’importanza di fare in modo che il paziente o il familiare/caregiver sia dotato di un adeguato strumento digitale, con schermo e telecamera e di una connessione internet. Oltre all’anamnesi familiare e a tutta la parte legata alla storia del paziente, attraverso la televisita è possibile valutare eventuali difficoltà nel linguaggio, nel movimento e nella coordinazione ( si può chiedere di alzarsi e sedersi, camminare, fare movimenti a richiesta), e nell’attenzione. Tutto questo lavoro preliminare avvantaggia molto la futura diagnosi, con guadagno di tempo e per chi non ha la possibilità di recarsi facilmente ad una visita in presenza, non sostituendosi alla medicina ambulatoriale ed ospedaliera ma integrandosi con essa e rendendola fruibile a più persone possibili.
Le potenzialità della medicina digitale si prestano bene ai servizi di supporto psicologico, che sono sempre più richiesti, dagli adolescenti alle problematiche postpartum, alla consulenza familiare fino all’impatto delle altre malattie nella propria vita. Potrebbe sembrare un modo asettico per affrontare la psicoterapia, e invece ha molti risvolti positivi, soprattutto quando si ha difficoltà ad integrarla con altri impegni, per molti l’utilizzo di uno strumento virtuale può essere anche un modo per superare eventuali paure, imbarazzi nell’affrontare la richiesta di aiuto, e lì dove mancano, sul territorio, servizi ambulatoriali di supporto psicologico, questo può essere un sistema concreto per supportare più persone ed interagire con altri specialisti per costruire percorsi adeguati.
La medicina del presente e del futuro ha bisogno della tecnologia digitale, per offrire al paziente, al centro di tutto, i migliori percorsi di cura, capaci di offrire diagnosi rapide, terapie adeguate, qualità di vita e rapporto medico-paziente, al quale niente mai potrà sostituirsi.
Salute
Alimentazione e fibromialgia: ecco le regole d’oro
L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.

L’alimentazione, per il paziente fibromialgico, è importante perché alcuni cibi contengono nutrienti che possiedono la capacità di modulare la risposta al dolore, alla fatica e anche l’efficienza cognitiva.
In attesa di trovare una terapia valida ed efficace in grado di aiutare tutti i pazienti che soffrono di fibromialgia, è importante che, chi ne soffre, riesca a mitigare i sintomi del disturbo in modo da migliorare la propria qualità della vita.
Un aspetto importante, non unico ma comunque centrale, è quello relativo all’alimentazione, poiché la letteratura scientifica sta evidenziando una correlazione stretta tra il consumo di alcune tipologie di alimenti e il peggioramento delle condizioni cliniche del paziente. Vale dunque la pena approfondire il discorso e lo possiamo fare con un esperto: si tratta del dottor Daniele Buttitta, medico e nutrizionista che ha svolto attività di consulenza al tavolo tecnico regionale (per la regione Sicilia) sul trattamento della fibromialgia.
Dottore, cominciamo subito con la domanda più importante: la modifica di alcune abitudini alimentari può essere di giovamento al paziente fibromialgico?
Entro una certa misura sì, e lo dico tanto in base alla la mia esperienza, quanto confortato dalla letteratura scientifica che si sta producendo in merito, da alcuni anni a questa parte.
Ciò detto dobbiamo sempre tenere conto del fatto che la fibromialgia è una patologia complessa e che richiede uno sforzo multidisciplinare, per offrire i risultati migliori.
I trattamenti monospecialistici non hanno dato, a oggi, risultati ottimali e pertanto preferirei che i pazienti che soffrono di questa patologia avessero ben presente che un approccio nutrizionale alla malattia deve essere considerato parte di un percorso, ma non certo tutto il tragitto.
Qual è l’importanza della corretta nutrizione, per un paziente affetto da fibromialgia?
La correzione di alcune abitudini e l’educazione a una nutrizione più adatta alle caratteristiche del fibromialgico ha dimostrato di poter facilitare il recupero di una buona qualità della vita.
Per prima cosa ritengo molto importante cercare di recuperare la regolarità intestinale, ripristinando quindi una corretta composizione della flora e migliorando l’efficienza delle mucose. Un intestino che funziona bene, infatti, consente di elaborare e assorbire meglio i nutrienti contenuti nel cibo, così da evitare carenze e diminuire i disturbi di tipo enterico che spesso affliggono i pazienti affetti da fibromialgia. In questo modo migliora la resistenza alla fatica, diminuisce la sensibilità al dolore, migliora la qualità del sonno e con esso anche la prontezza cognitiva.
Come si recupera una buona funzione intestinale?
Le ricerche indicano che alcuni alimenti peggiorano la funzione stessa.
Tra questi cito in primo luogo gli zuccheri semplici e le farine raffinate, che andrebbero eliminate totalmente. Dopodiché, almeno in una prima fase, io preferisco eliminare latte e latticini. Una terza categoria alimentare, che va eliminata dalla dieta del fibromialgico sono le solanacee e quindi i peperoni, i pomodori, le melanzane e le patate. Un discorso a parte va fatto per il mais.
Che discorso?
Anche se i pazienti fibromialgici non sono celiaci in senso stretto, si è notato che una riduzione del glutine, nella loro dieta, porta benefici.
Tuttavia, in tale sostituzione, si tende ad abusare di prodotti derivati dal mais che, nonostante non contengano glutine, non sono comunque ideali per il paziente fibromialgico (probabilmente per la sensibilità alle fumonisine, funghi microscopici che possono produrre specifiche tossine in grado di esacerbare i sintomi della FM.) Pertanto io suggerisco l’eliminazione del mais e dei suoi derivati, e incoraggio invece il consumo di farine alternative quali grano saraceno, farine di riso, miglio, quinoa eccetera.
Quali sono gli effetti di queste limitazioni, per i pazienti fibromialgici?
L’idea è che servano a preparare il terreno biologico, in modo da rendere più efficaci le terapie proposte da altri specialisti.
L’aspetto della preparazione del terreno biologico è importante, poiché dobbiamo pensare che spesso questi pazienti arrivano a una diagnosi dopo molti anni di nomadismo medico e dopo avere assunto farmaci e integratori di ogni genere. Si rende allora necessario, prima ancora di ogni altro intervento, correggere il metabolismo del paziente, in modo da restituirgli la capacità di rispettare i ritmi circadiani e, con essi, ri-imparare ad assecondare le necessità nutrizionali mano a mano che muta, nella giornata, l’assetto ormonale.
Purtroppo non è possibile definire una sorta di regime alimentare standard valido per tutti i pazienti fibromialgici, ma le indicazioni sulle limitazioni sono in genere comuni. A proposito: il rispetto del metabolismo richiede anche l’abolizione dei tonici, di cui spesso ed erroneamente molti fibromialgici fanno uso nel tentativo di “darsi una carica”. Dunque caffè, cioccolata e tè nero sarebbero da evitare.
Posto che non possiamo indicare un regime alimentare universalmente valido, possiamo almeno dare alcuni suggerimenti di massima su che cosa si può mangiare?
Direi che il suggerimento migliore è quello di avere varietà alimentare, privilegiando il più possibile cibi freschi, per avere una maggiore ricchezza di vitamine e minerali.
Ci vogliono quindi le proteine, meglio se vegetali, i grassi (con un regolare consumo di olio di oliva a crudo e avendo cura di assumere anche acidi grassi essenziali tipo omega 3 e 6 nelle giuste proporzioni, attraverso pesce di acque fredde e frutta secca) e, per ciò che riguarda gli zuccheri, si devono scegliere carboidrati complessi, in modo da poter contare su una produzione costante di energia, senza sbalzi glicemici. Importante è anche l’idratazione: l’acqua è il solvente fondamentale per ogni processo biochimico che avviene nel corpo umano e dunque bere acqua, regolarmente, è indispensabile.
Come si pone a proposito degli integratori?
Vanno eventualmente prescritti caso per caso e non prima di avere fatto delle analisi opportune per evidenziare eventuali carenze. È possibile che, in caso di intestino infiammato, ci siano delle carenze date da malassorbimento che potrebbero richiedere un aiuto in forma di integrazione. Comunque sia mi preme sottolineare come la sostanza che probabilmente risulta essere più necessaria, per via di una generale carenza diffusa anche nella popolazione non fibromialgica, è quella di vitamina D (per avere una panoramica sulla vitamina D e il suo ruolo nell’organismo, clicca qui).
La vitamina D, infatti, che tutti conosciamo per la sua azione sulle ossa, è in realtà in grado di intervenire in oltre 2000 processi di attivazione dei geni e, dunque, una sua carenza può avere conseguenze metaboliche importanti. Che possono senz’altro peggiorare il quadro del paziente fibromialgico.
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