Approfondimenti
Autismo: individuare i segnali per una diagnosi precoce

Il riconoscimento precoce dei disturbi dello spettro autistico è molto prezioso. E’ possibile ottenere una diagnosi attendibile già intorno ai 24 mesi. Recenti studi hanno dimostrato che il trattamento dei disturbi tra i 2 e i 4 anni d’età porta a risultati migliori.
Ne parliamo con il dottor Giovanni Valeri, Neuropsichiatra all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma
Cos’è l’autismo?
L’autismo è un disturbo del neurosviluppo, cioè uno sviluppo atipico dell’organizzazione cerebrale.
Non è un disturbo a base emozionale, non è un disturbo post-traumatico, non è un disturbo da ipo-stimolazione, non è causato da allergie alimentari, né tantomeno ha una qualche correlazione con i vaccini.
Quel che accade è che alcuni circuiti cerebrali, in particolare quelli relativi al social brain, si sviluppano in modo atipico e ciò comporta quelli che sono i segni peculiari dell’autismo, mi riferisco ai deficit di interazione sociale e di comunicazione e ai comportamenti e interessi ripetitivi e stereotipati. Quel che disorienta maggiormente i genitori è che i disturbi si presentano in un bambino che nella maggioranza dei casi cresce fino ai 12-14 mesi di vita senza particolari problemi o segni clinici. E’ un bambino che sorride, che arriva anche a dire le prime paroline.
Ecco che i primi segni precoci si possono cogliere tra i 12 e i 18 mesi, proprio perché l’organizzazione cerebrale a quest’età compie un importante salto qualitativo. Un bambino normalmente intorno ai 18 mesi impara 5 parole al giorno ogni giorno; quando questo salto qualitativo non accade, si può addirittura registrare una regressione delle competenze, ma ciò non dipende da eventuali fattori esterni.
Quali sono i segnali tra i 12-18 mesi?
I segnali sono coerenti alle aree interessate dal disturbo dello spettro autistico. Facciamo degli esempi importanti:
Una scarsa risposta al nome: se il genitore, posto alle spalle del bambino che è interessato ad un oggetto, lo chiama e non ottiene risposta o l’ottiene raramente. Ciò dimostra che l’attenzione verso gli oggetti è superiore rispetto agli stimoli sociali.
Alterato sviluppo della comunicazione, soprattutto non verbale. Disturbi nella comunicazione, non solo il ritardo del linguaggio, ma ad uno sviluppo atipico della comunicazione non verbale: usare pochi gesti, non presentare il pointing dichiarativo, mi riferisco non al gesto dell’indicare per chiedere qualcosa, ma per e l’esperienza.
Comportamenti o interessi ripetitivi e ristretti, quindi un uso stereotipato degli oggetti; un gioco con poche variazioni.
Se inoltre i genitori notano una regressione delle competenze relazionali o comunicative, ecco allora che diventa importante valutare il rischio di un possibile disturbo dello spettro autistico.
Vi sono altri disturbi che spesso sono associati, come le allergie alimentari, problemi gastrointestinali o i disturbi del sonno, ma che da soli non hanno alcun significato, né tantomeno determinano il disturbo dello spettro autistico. Sappiamo che il 60% dei bambini che soffrono di un disturbo dello spettro autistico presentano disturbi del sonno, ma in sé si tratta di un sintomo a-specifico che da solo non rappresenta un segnale d’allarme. Il rapporto di casualità con questi fattori non esiste.
E’ stato condotto uno studio inglese su più di 150 bambini provenienti dagli orfanotrofi rumeni e adottati dalle famiglie inglesi dopo la caduta del regime. La condizione di questi bambini era particolarmente difficile, il rapporto operatore/bambino era di circa 1 a 100, quindi i bambini versavano in una condizione di assenza di stimoli sociali più vicina all’abbandono. Quello che è emerso è che naturalmente presentavano un mole importante di disturbi, ma anche quando a 4 anni manifestavano disturbi simili all’autismo, ai 6 anni questi disturbi erano scomparsi; ciò significa che se non c’è una predisposizione genetica, il disturbo dello spettro autistico non si manifesta.
A volte però non sempre i segnali sono così chiari ed evidenti. Come bisogna comportarsi in caso di dubbio?
Può capitare che alcuni bambini manifestino sintomi non sempre così evidenti, dalle caratteristiche confuse. Allora è importante porsi in ascolto e proporre al bambino stimoli adeguati che favoriscano la promozione delle competenze socio-comunicative per un periodo di circa 3 mesi. Se in questo tempo non si notano cambiamenti o addirittura si registra una regressione, è opportuno proseguire un iter diagnostico per valutare il rischio.
Come si fa? Ci dia qualche suggerimento?
Un’azione basilare è imparare a seguire l’interesse del bambino, mettersi davanti, in modo che lui possa guardare gli occhi e la bocca del suo interlocutore e provare a inserirsi in modo sintonico nella sua attività, per esempio nel suo gioco ripetitivo e stereotipato: mettiamo il caso che il gioco sia quello di sbattere una macchinina o far girare solo la ruota, non bisogna distoglierlo dal gioco ma provare a inserirsi proponendo, per esempio, un gioco parallelo, una relazione/variazione con un’altra macchinina.
Da che età è possibile intervenire?
Dai 24 mesi è possibile diagnosticare la malattia con estrema attendibilità e agire subito è di importanza vitale. Molti studi ci dimostrano infatti che il trattamento precoce offre un’opportunità preziosissima. Intervenire già dai 2 anni significa poter sperare anche che l’organizzazione stessa del cervello si modifichi; questo dato è di fondamentale rilevanza. Vorrei sottolineare che il disturbo dello spettro autistico è uno sviluppo atipico di alcuni circuiti cerebrali e noi sappiamo che è possibile intervenire sulle connessioni, non siamo dinnanzi a delle lesioni, ma siamo di fronte a qualcosa che non funziona come dovrebbe. Vari studi recenti ci incoraggiano a percorrere questa strada.
Non è ancora possibile oggi guarire dall’autismo, ma – con il riconoscimento, la diagnosi e il trattamento precoce – si possono ottenere risultati incredibili non solo a livello del comportamento, ma addirittura nell’organizzazione cerebrale stessa.
Come avviene il percorso diagnostico all’ospedale Bambino Gesù?
Si esegue una valutazione in day-hospital. E’ un percorso che dura 2-3 giorni, si effettua una valutazione globale dello sviluppo e una consulenza pediatrica, genetica, neurologica e audiologica. In prima istanza non si effettuano esami invasivi, anche per non stressare il bambino e rischiare di compromettere l’iter valutativo. E’ di fatto un’analisi di tipo interattiva e comportamentale. Alla fine dell’iter diagnostico si ottiene un profilo di sviluppo globale e si propone alla famiglia un progetto terapeutico personalizzato. Purtroppo la situazione italiana è preoccupante e vi sono molte regioni d’Italia dove per il trattamento del disturbo dello spettro autistico non vengono erogate terapie adeguate. Il Ministero già dal 2011 ha delineato attraverso la linea guida dell’Istituto Superiore di Sanità quali sono le terapie efficaci sulla base di evidenze scientifiche, ma al contempo poco si è fatto a livello regionale, soprattutto al Sud Italia per garantire la diagnosi e la cura appropriate.
Per le richieste è possibile inviare una mail all’indirizzo al Servizio di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù: psp.neuropsichiatria@opbg.net
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Come tenersi in forma durante il lock down
La chiusura delle palestre limita la possibilità di rimanere in forma. Eppure il movimento aiuta a stare meglio e a rinforzare le difese immunitarie. Vediamo come conciliare limitazioni, movimento e benessere.

La chiusura delle palestre limita la possibilità di rimanere in forma. Eppure il movimento aiuta a stare meglio e a rinforzare le difese immunitarie. Vediamo come conciliare limitazioni, movimento e benessere.
Siamo di nuovo in emergenza Covid-19 e, purtroppo, ciò finisce anche con il limitare le attività sportive e la frequentazione di piscine e palestre. Anche le passeggiate, pur consentite, subiscono limitazioni importanti poiché (almeno nelle “zone rosse”) ci si può muovere solo in prossimità della propria abitazione. E per quanto riguarda il running, per ora prevale una linea morbida e possibilista, ma ordinanze locali potrebbero anche limitare la libertà dell’esercizio, che deve comunque essere svolto in solitaria e seguendo norme di distanziamento personale. In questa situazione di difficoltà per gli amanti dello sport, abbiamo chiesto al professor Domenico Sinesi, direttore emerito del dipartimento di medicina dello Sport presso l’Ospedale Policlinico Università di Bari, di spiegarci perché è importante non trascurare l’attività fisica quotidiana e, da un punto di vista pratico, come svolgerla in questa situazione di difficoltà.
Professore, le linee guida per evitare l’infezione da coronavirus ci dicono di evitare i contatti e stare quanto possibile in isolamento. Ciò limita le attività sportive. Lei condivide questa impostazione?
La catena dei contagi ha subito un’impennata notevole sull’intero suolo nazionale e va quindi fermata in ogni modo possibile. Il distanziamento personale rispetto alle attività ludiche e sportive amatoriali diventa quindi una delle tante forme di contenimento: inutile da sola, ma organica se eseguita insieme ad altre. fatta questa premessa, è necessario far seguire a essa un ragionamento: a tutti noi è stato spiegato fin da marzo che cosa non si deve fare, sottolineando soprattutto i comportamenti da evitare. Allo stesso tempo mi permetto di aggiungere che bisognerebbe dare altrettanta importanza a che cosa è bene fare, in queste situazioni. Intendo dire che bisogna fornire suggerimenti utili a vivere al meglio i periodi di limitazione della propria autonomia. L’isolamento, pur proteggendoci dal virus, ha effetti negativi sulla nostra salute tanto fisica quanto psicologica e questi effetti finiscono con l’alterare una adeguata risposta immunitaria.
Questo vuol dire che è necessario continuare a fare attività fisica?
Certamente. Il movimento serve a sostenere il metabolismo e, così, migliora la sintesi di globuli rossi e bianchi, piastrine, neurotrasmettitori, enzimi e ogni singola molecola prodotta dal corpo. Ciò rinforza la nostra capacità di reazione ad eventuali aggressioni virali. A questo aggiungo che i macrofagi, tra le prime difese immunitarie, hanno bisogno di muoversi nel torrente sanguigno, per agire al meglio. Ebbene alzando la frequenza cardiaca, facciamo in modo che svolgano il loro compito di presidio del nostro territorio biologico in maniera più efficace.
Come si dovrebbe organizzare un’attività fisica a domicilio?
Fermo restando che chi ha attrezzi tipo tapis roulant, cyclette o ellittiche ne può usare liberamente suggerisco a chi non ne ha e non se la sente di uscire, di eseguire sedute a corpo libero non eccessivamente lunghe, ma regolari. Credo che trenta minuti complessivi di esercizio (volendo in due “tranche” da 15 minuti l’una) siano sufficienti per mantenere la tonicità muscolare e svolgere un po’ di allenamento cardiovascolare. L’ideale sarebbe ripartire ogni sessione di allenamento in tre parti uguali di tempo. Dedicando quindi un terzo di questo agli esercizi di resistenza, un terzo a quelli atti a mantenere la forza e un terzo a quelli di allungamento muscolare.
Quali sono gli esercizi più utili, in questa situazione?
Per ciò che riguarda gli esercizi di resistenza io suggerisco la corsa sul posto o il salto della corda, da affrontare a ritmo blando. A chi ritiene che quest’ultimo sia un passatempo infantile, suggerisco di verificare quali sono gli allenamenti dei pugili professionisti e di provare a fare anche solo tre minuti consecutivi di salto della corda: si ricrederà velocemente. Per ciò che riguarda la forza si può procedere con piegamenti tipo squat, per far lavorare le gambe. Alzarsi sulle punte serve a mantenere tonici i polpacci. Quindi i piegamenti sulle braccia (aiutandosi con l’appoggio delle ginocchia, se serve) sono sempre utili per tonificare la parte alta del corpo e le braccia. Il plank è un esercizio che aiuta soprattutto la muscolatura addominale. Direi che dieci piegamenti di squat, dieci sulle braccia, dieci alzate sulle punte e un minuto di plank sono sufficienti, per iniziare. Per ciò che riguarda la terza parte della seduta, lo stretching, è necessario puntualizzare alcuni aspetti fondamentali. Ricordando che lo stretching è molto importante per coloro che sono in smart working, dato che rischiano di passare molto tempo seduti davanti a un video.
Quali aspetti vuole sottolineare, per ciò che riguarda lo stretching?
Prima di tutto voglio dire che gli esercizi possono essere eseguiti liberamente più volte nella giornata e non solo durante le sessioni di allenamento, più specificamente ogni volta che si avverte rigidità muscolare. Ma soprattutto è il modo in cui si fa il movimento che va corretto rispetto alle abitudini che vedo tra le persone che fanno sport a livello amatoriale e non solo. Per esempio, quando portiamo il tallone al gluteo, tutti tirano la gamba per avvicinare il tallone al gluteo stesso. Ebbene il movimento dovrebbe essere opposto: la mano dovrebbe opporre resistenza mentre, con la gamba, cerchiamo di recuperare la posizione su due piedi; il movimento corretto è quello che tende a riportare il piede dal gluteo verso terra. Lo stretching non deve essere fatto “in trazione”, ma spingendo. La trazione favorisce elongazioni sia muscolari che tendinee ed espone ad infortuni.
Con il ritorno del lockdown è ripartita la polemica relativa all’interpretazione delle norme sull’attività fisica all’aperto. Che parere ha sulla questione?
Rispondo dicendo che è sbagliato porsi in maniera troppo assertiva sulla questione. Io penso che per rispetto delle autorità e del lavoro di medici, infermieri e altri, io dico che è giusto rispettare le indicazioni che verranno date ed eventualmente, se ci saranno limitazioni severe, riprendere l’attività all’aperto quando le condizioni saranno differenti. Attenzione però: il runner abituato a fare molti chilometri al giorno vive questa privazione in maniera drammatica a livello personale. La produzione di endorfine da parte del corpo, dopo le sedute di allenamento, è massiccia e tale da generare una dipendenza. Quindi è sbagliato, da parte degli altri, considerarlo un capriccio. È un’esigenza difficile da gestire e che somiglia molto a quella delle sigarette per il fumatore, per intenderci.
Come si può mitigare questa dipendenza?
Attraverso sostituti della corsa, se le condizioni impediranno di uscire. Si può fare corsa sul posto, meglio se sul balcone di casa, o saltare la corda. So che lo scorso marzo alcuni hanno corso dentro casa… A loro, se mai fossero costretti a ripetere questa esperienza, suggerisco di invertire il verso della corsa ogni trenta o sessanta secondi per non mandare in sofferenza l’apparato vestibolare, quello che governa il senso dell’equilibrio.
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L’attività fisica migliore? Quella che diverte!
Se è vero che il movimento è salute, quello che diverte è ancora più salutare. Per stare veramente bene è necessario allo scegliere un’attività che non ci faccia solo stancare ma ci faccia anche divertire. In modo da migliorare la chimica cerebrale.

Se è vero che il movimento è salute, quello che diverte è ancora più salutare. Per stare veramente bene è necessario scegliere un’attività che non ci faccia solo stancare, ma anche divertire. In modo da migliorare la chimica cerebrale.
Molte volte il medico sportivo è interpellato per rispondere a una domanda che all’apparenza sembra cruciale: qual è l’attività fisica migliore? Ognuno risponde a modo suo, prendendo in considerazione diverse variabili. Alcuni diranno, a ragione peraltro, che l’attività in piscina è ottima poiché non espone a traumi di tipo articolare. Altri diranno che il running è comodo, perché basta infilarsi le scarpe, una tuta e l’allenamento può iniziare. Altri ancora diranno che la camminata veloce coniuga lavoro cardiovascolare senza insistere su ginocchia zona lombare. Ogni attività, insomma, ha vantaggi e svantaggi e il medico sportivo, nel rispondere alla domanda sull’attività migliore, dovrà dare una risposta che tiene conto anche dell’età e delle condizioni del paziente, del suo terreno biologico e di eventuali patologie in atto. Una delle discriminanti che tuttavia vengono poco spesso prese in considerazione è il divertimento, l’appagamento che l’attività motoria dovrebbe dare. Partiamo allora da una considerazione di carattere generale, che dovrebbe orientare la scelta più di qualsiasi altro ragionamento: non c’è benessere autentico senza gioia.
Questa considerazione è banale solo all’apparenza. Pensiamo infatti a come funziona il corpo umano e quali sono gli attori che entrano in gioco, quando l’organismo inizia a muoversi: si avvia la macchina, il sistema cardiovascolare aumenta il proprio lavoro per consentire l’ossigenazione dei muscoli; questi, sotto sforzo, finiscono con il subire delle microscopiche lesioni che hanno bisogno di essere riparate e così, oltre ad attivare i meccanismi di infiammazione che seguono qualsiasi trauma (piccolo o grande che sia), il cervello ordina la produzione di sostanze analgesiche, le endorfine, oppioidi che vengono utilizzati per ottenere il controllo del dolore. La sensazione di rilassatezza che segue a questa cascata endorfinica, con il tempo, innesca un meccanismo di assuefazione e dipendenza. Entro certi limiti il circolo vizioso appena descritto è benefico: siamo spinti a migliorarci e così il tono muscolare, la capacità respiratoria e cardiaca migliorano. Ma oltre un certo limite alcune persone iniziano a diventare dipendenti dall’attività fisica e, in maniera paradossale, hanno un rapporto con l’esercizio che ricorda da vicino quello che si può avere con le sigarette o con i farmaci tranquillanti.
Un’attività fisica svolta, invece, con finalità ludiche ha un impatto diverso sulla nostra psiche. Se pensiamo per esempio a una partita a tennis, a una partita di calcetto tra amici, ecco che il cervello reagirà con una maggiore attivazione del sistema dopaminergico che è quello connesso alle sensazioni di appagamento, non necessariamente sportivo. La dopamina genera buonumore, ma si attiva anche in compagnia, mangiando un dolce, osservando un panorama emozionante. Dobbiamo allora pensare che la scelta dell’attività dovrebbe basarsi soprattutto sulla capacità di creare benessere. Dunque la risposta del medico sportivo alla domanda su quale sia l’esercizio migliore è: quello che ci diverte di più. Perché cuore, muscoli, polmoni si esercitano tanto su un tapis roulant quanto su un campetto di calcio a 5 e allora, a parità di condizioni di salute, dobbiamo semplicemente scegliere tra quelle attività che ci fanno sorridere, anche solo al pensiero.
Articolo realizzato con la consulenza del professor Domenico Sinesi.
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L’eccesso di sport abbassa le difese immunitarie?
Il fenomeno di chiama open-window e coinvolge soprattutto coloro che portano all’estremo sforzi di resistenza. Questo abbassamento delle difese immunitarie ci espone soprattutto all’azione dei virus respiratori.

Il fenomeno si chiama open-window e coinvolge soprattutto coloro che portano all’estremo sforzi di resistenza. Questo abbassamento delle difese immunitarie ci espone soprattutto all’azione dei virus respiratori.
Noi siamo abituati a pensare che il binomio sport e salute sia indissolubile e assoluto. Ciò è per gran parte vero, poiché il movimento può essere utile a proteggerci da numerose malattie, specialmente quelle di tipo metabolico e cardiovascolare. Tuttavia, come ben sanno i medici dello sport, i training a intensità molto elevata, così come il ripetere sessioni di allenamento stremanti in maniera ravvicinata, può risultare dannoso ed esporci al rischio di infezioni, specialmente quelle di tipo virale. Come mai ciò accade? La spiegazione va cercata nel fatto che dopo una sessione di allenamento particolarmente impegnativa i leucociti vengono “chiamati” verso i muscoli, poiché lo stress muscolare determina la rottura delle fibrille del muscolo stesso e si genera quindi uno stato di infiammazione. Molto banalmente noi possiamo renderci conto di questo fenomeno quando, dopo un periodo di inattività, facciamo uno sforzo fisico che ci lascia indolenziti per uno o più giorni a venire. Questo disagio non è causato, come molti credono erroneamente, dall’accumulo di acido lattico (che casomai è responsabile della sensazione di stanchezza muscolare, che comunque passa in fretta), ma dal danno alle fibre muscolari che spinge, poi, il corpo, alla ricostruzione delle stesse.
Comunque sia lo stato infiammatorio post attività indebolisce l’attività di presidio da parte delle difese immunitarie e si ha quindi una maggiore vulnerabilità nei confronti dei virus, specialmente quelli respiratori, considerando che sono quelli che si diffondono più facilmente nell’ambiente e sono anche quelli che, con le nostre prese di fiato sotto sforzo, rischiamo di portare all’interno dell’albero respiratorio con maggiore facilità. Questo fenomeno di calo delle difese viene chiamato dai medici sportivi con un nome particolare: “open window”. In genere dura dalle tre ore post allenamento (in caso di un’ora di corsa sostenuta) fino a 72 ore (in genere ciò accade però quando si eseguono attività molto stressanti per il corpo come maratone o triathlon), ma è sempre molto difficile indicare la “quantità” di fatica che può determinare l’apertura di questa finestra di vulnerabilità biologica, perché la capacità di recupero dipende anche dallo stato di forma individuale. Dunque il runner appassionato trarrà solo vantaggi da una mezzora di corsa di buon passo, mentre la stessa quantità di tempo corsa per la prima volta da un sedentario (ammesso che ci riesca, beninteso), può effettivamente creare una condizione di stress organico che “apre la finestra” ai patogeni. Va anche accennato un altro aspetto interessante: il calo delle difese immunitarie si verifica anche a livello delle IgA salivari, le quali aiutano a difendersi dalle infezioni del primo tratto respiratorio. Le IgA salivari, peraltro, sono a loro volta condizionate dalla composizione del microbiota delle mucose della bocca ebbene, durante lo sforzo fisico e respirando a bocca aperta, è possibile alterarne la composizione. Ecco perché possiamo scientificamente confermare una certa aneddotica per cui, dopo una maratona o una mezza maratona corsa da un amatore, possono facilmente subentrare faringiti, tosse e sindromi simil-influenzali.
Questo significa che l’attività fisica può indebolirci, anziché rafforzarci? Niente affatto: il movimento fatto in maniera regolare, non eccessivamente intenso (quindi la corsa lenta così come la camminata veloce) è utile per restare in forma, proteggere il cuore, migliorare l’efficienza polmonare, persino per stimolare la neurogenesi (secondo alcune ricerche). Ma va svolto nel rispetto delle proprie possibilità fisiche, perché l’obiettivo reale è il benessere fisico e psicologico.
Articolo realizzato con la consulenza del professor Domenico Sinesi.
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