Cultura
27 e 28 settembre nelle sale il film evento di Nick Cave

Dopo il bellissimo 20.000 days on Earth di Jan Forsyth e Jane Pollard, uscito nel 2014, Nick Cave torna sul grande schermo con un docufilm evento, presentato in anteprima a #Venezia73: One more time with feeling di Andrew Dominik.
L’inizio delle riprese del docufilm è datata 2014. E quello che doveva essere la narrazione per immagini di una performance artistica come la preparazione del nuovo album e un tributo ai The Bad Seeds, si trasforma inaspettatamente in un viaggio introspettivo nel dolore angosciante per la perdita di un figlio. Dopo un esitante incipit, come in un’impasse emotiva, il bianco e nero bellissimo ed estetizzante della pellicola diventa quasi l’unica narrazione possibile di un mondo che cambia colore dopo la tragedia. Nick Cave attraversa con estremo pudore questo buco nero intimo e inconsolabile, componendo le sue nuove tracce. Vi è la fotografia di Nick Cave padre e “profeta” contemporaneo, come da molti sui fans reputato.
Skeleton Tree, l’ultimo album è stato pubblicato il 9 settembre, a ridosso della presentazione del docufilm alla kermesse veneziana. Il lungometraggio di Dominik, seppur nel pudore e nel rispetto verso la tragedia che lo stesso regista ha definito in conferenza stampa come “la presenza di un elefante nella stanza”, sfiora momenti di intimità familiare toccanti, ma è pur sempre il ritratto estetico e lirico di uno dei mostri sacri della musica internazionale.
E in questo vortice di lampi di luce che ruota attorno alla stanza, le parole di Cave rimangono l’unica vera confessione – “profetica “ – dell’artista:
La maggior parte di noi non vuole cambiare veramente… in effetti perché dovremmo? Ciò che inseguiamo è una sorta di variazione dal modello originale, proviamo sempre a essere noi stessi, versioni migliori di noi stessi, o almeno così ci auguriamo. Ma cosa succede quando un evento è così catastrofico da cambiarci completamente? Ci trasformiamo in persone sconosciute. Così quando ci guardiamo allo specchio riconosciamo la persona che eravamo ma ora dentro la nostra pelle vive una persona diversa.
Cultura
21 giorni per rinascere
21 giorni per rinascere è l’ultima fatica letteraria del prof. Franco Berrino, e non solo. E’ un libro prezioso scritto con Daniel Lumera e David Mariani. E’ un percorso per cambiare vita, ringiovanire e occuparsi della propria salute. E’ un accompagnamento al cambiamento, un invito a volersi più bene sul serio. Un libro da leggere a settembre. E’ un po’ capodanno vero?

Cambiare si può, spesso si desidera cambiare, ma è così difficile! Ci sono resistenze interne, un po’ di pigrizia, forse anche paura di non riuscirci davvero. O anche paura di riuscirci sul serio. Sarà capitato anche a voi di pensare di voler cambiare, ma di non riuscire a tradurre in azioni il nostro desiderio.
Quando si parla di cambiare abitudini si pensa facilmente alle dipendenze, al modo che abbiamo di alimentarci, alla nostra attività fisica. Bene, tutti in teoria – chi più chi meno – pensa di sapere in liena teorica cosa occorrerebbe fare, ma non sempre è così.
Iniziamo con un punto importante: per ottenere grandi cambiamenti dobbiamo iniziare a cambiare piccole abitudini; fare piccoli passi, un passo alla volta. Ma come si fa a creare una nuova abitudine? Per i nostri esperti, per Franco Berrino, Daniel Lumera e David Mariani per instaurare una nuova abitudine occorrono 21 giorni. Il giro di boa è 21 giorni.
E poi stacchiamoci dall’idea della privazione, che sa di punizione e le punizioni non piacciono veramente a nessuno. Pensiamo ad aggiungere: contemporaneamente aggiungendo, toglieremo. Aggiungendo della frutta secca alla colazione sarà più facile eliminare il cornetto per esempio. Oppure esplorando nuovi tipi di tè potremo limitare l’uso del caffè.
Piccoli gesti in direzione della nostra salute.
21 giorni per rinascere è una guida che vi accompagna verso la creazione di nuove abitudini. Fatevi un regalo, ne sarete felici.
Qui la nostra intervista al professor Franco Berrino.
Cultura
La forma dell’acqua
Ogni storia d’amore ha la sua forma, la sua natura e parla la sua lingua. È questa la favola di The shape of water, (la forma dell’acqua) l’ultimo film del visionario Guillermo del Toro, Leone d’oro alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia e già candidato a 13 nomination agli Oscar, in uscita il prossimo 14 febbraio. […]

Ogni storia d’amore ha la sua forma, la sua natura e parla la sua lingua. È questa la favola di The shape of water, (la forma dell’acqua) l’ultimo film del visionario Guillermo del Toro, Leone d’oro alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia e già candidato a 13 nomination agli Oscar, in uscita il prossimo 14 febbraio.
Siamo a Baltimora nel 1962, in piena Guerra Fredda, e gli americani catturano e segregano in un laboratorio governativo una strana creatura degli abissi, che secondo una sarebbe una divinità guaritrice.
Elisa (Sally Hawkins) è una timida ragazza muta che lavora come inserviente nel laboratorio. Ha due soli amici: la sua collega di colore Zelda, – Octavia Spencer, già premio Oscar, che ricordiamo per la sua magistrale interpretazione ne Il diritto di contare di Theodore Melfi – e Giles (Richard Jenkins) un vicino di casa discriminato in quanto omosessuale con il quale Elisa condivide la sua solitudine.
In questo laboratorio di spie americane e infiltrati del KGB, il capo – Michael Shannon, lo sceriffo di Animali Notturni di Tom Ford – è un cinico aguzzino che sevizia la creatura alla ricerca di chissà quale verità sulla sua natura. Sullo sfondo di questa “aliena” storia d’amore tra Elisa e l’uomo acquatico, Guillermo del Toro, con spirito messicano, dipinge il ritratto di un’America accecata dalla guerra e dal complottismo, tanto da non accorgersi che quella creatura è davvero la misteriosa forma di intelligenza di un altro mondo.
Elisa priva di voce si avvicina al mostro acquatico e riesce a stabilire con lui un contatto emotivo unico.
Ispirato dagli archetipi fiabeschi presenti nell’immaginario collettivo il regista ha dichiarato: “Volevo creare una storia bella ed elegante sulla speranza e sulla redenzione come antidoto al cinismo dei nostri tempi. Volevo che questa storia prendesse la forma di una fiaba, in cui un umile essere umano si trovasse a vivere un’avventura più grande e trascendente di qualsiasi altro evento della sua vita. Ho pensato che sarebbe stata una buona idea contrapporre quell’amore a qualcosa di tanto malvagio come l’odio tra le nazioni complice della Guerra Fredda, o l’avversione tra le persone causato dalle differenze di razza, colore, abilità e genere.”
È così che attraverso il fantasy Guillermo del Toro supera i limiti della realtà, fa appello agli amanti e ai sognatori di resistere al cinismo dei tempi, che tutto logora, e di trascinare fuori dagli abissi ancestrali delle nostre paure l’amore con la A maiuscola, l’amore capace di guarire e far rinascere.
Cultura
Chiamami con il tuo nome: l’estate, il desiderio e l’amore.
Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, candidato con 4 nomination agli Oscar 2018, è uno di quei film che rimarrà nella storia del cinema come una delle pellicole più romantiche degli ultimi dieci anni.
Luca Guadagnino regista siciliano tanto amato all’estero quanto criticato dalla stampa italiana, è uno di quei cineasti sul quale non avremmo scommesso più di tanto al suo debutto con Melissa P. […]

Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, candidato con 4 nomination agli Oscar 2018, è uno di quei film che rimarrà nella storia del cinema come una delle pellicole più romantiche degli ultimi dieci anni.
Luca Guadagnino regista siciliano tanto amato all’estero quanto criticato dalla stampa italiana, è uno di quei cineasti sul quale non avremmo scommesso più di tanto al suo debutto con Melissa P.
Invece prima di Chiamami col tuo nome, avevamo già cambiato opinione sul suo cinema con Io sono l’amore e A Bigger Splash, presentato a Venezia 72, che vedeva come protagonista una splendida Tilda Winston in versione rockstar in vacanza a Pantelleria. E anche in quell’occasione Guadagnino aveva fatto il pieno dei consensi presso la stampa estera e il pieno delle critiche in casa. Misteri del pensiero omologato probabilmente.
Chiamami col tuo nome è tratto dall’omonimo romanzo di Andrè Acìman che compare fugacemente anche nel film di Guadagnino. La sceneggiatura è stata adattata anche grazie al contributo dello scrittore e regista James Ivory che è anche produttore associato.
Nella trasposizione cinematografica il romanzo è ambientato a Crema città di residenza del regista, anziché in Liguria. La famiglia Perlman è una famiglia di colti borghesi illuminati che vive in un splendido casale di campagna. Siamo nell’estate del 1983 ed Elio, interpretato da Thimotée Chalamet, è un adolescente di 17 anni fuori dal comune, che passa l’estate a scrivere di musica, a leggere e a flirtare con Marzia. Oliver (Armie Hammer) è un aitante studente di archeologia del New England, che il padre di Elio ospita per aiutarlo a completare una tesi di dottorato.
Guadagnino ci fa fare un tuffo nostalgico nel passato, in una un’estate tipicamente italiana, fatta di corse sudate in bici, partite a pallavolo, bagni nel lago tra un canzone e l’altra della Bertè, gustose cene sotto le stelle e l’amore sognato che scoppia all’improvviso.
Chiamami col tuo nome è l’estate nel cuore che fa trepidare nei tormenti del primo amore, scivolare in profondi abissi e poi volare fino alle vertigini.
In Elio c’è la purezza di un adolescente così precocemente già pregno di cultura e bellezza da sentirsi fuori luogo in mezzo ai suoi coetanei. Il padre è un docente di archeologia e la madre Annella (interpretata da Amira Casar) è una donna che riflette lo stereotipo della moglie bella, accogliente, affettuosa e silente osservatrice.
Elio respira una libertà di espressione fuori dal comune per la società italiana di provincia degli anni ‘80. È chiaro che Guadagnino, ancora una volta, come in A Bigger Spalsh, ci fotografa l’estratto borghese di una classe sociale con uno stile di vita elitario.
All’arrivo di Oliver, Elio è costretto a dividere con lui la stanza; a primo acchito non vi è empatia fra i due, ma quasi un gioco di scherno. Elio si sente prevaricato dall’arrogante capacità di seduzione di Oliver, entrambi ostentano reciprocamente indifferenza nell’assoluta inconsapevolezza di ciò che li travolgerà.
Chiamami col tuo nome è un film che ha avuto una lunga gestazione tra una scrittura e l’altra, i produttori Luca Spears e Howard Rosenman hanno letto il libro per la prima volta nel 2008. Nel 2014 James Ivory viene coinvolto negli adattamenti della sceneggiatura e quasi 9 anni dopo cominciano le riprese.
La location scelta da Guadagnino è una villa abbandonata a Moscazzano vicino Crema, che la set decorator Violante Visconti, nipote di Luchino, ha reso l’elegante villa di famiglia del XII secolo.
Nelle sue note di regia Guadagnino dice: “Mi piace pensare che Chiamami col tuo nome chiuda una trilogia di film sul desiderio, con Io sono l’amore e A Bigger Splash.
Mentre nei precedenti il desiderio spingeva al possesso, al rimpianto, al disprezzo, al bisogno di liberazione, in Chiamami col tuo nome abbiamo voluto esplorare l’idillio della giovinezza. Elio, Oliver e Marzia sono irretiti in quella splendida confusione che una volta Truman Capote ha descritto, affermando “l’amore, non avendo una mappa, non conosce confini”.
Ed è così che Elio scopre la felicità dell’amore rivelato ma anche il dolore bruciante della perdita, e poi del ritorno alle convenzioni sociali. È un amore che seppur breve rimarrà inciso nella memoria.
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